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Esportazioni fatali
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In Ghana il concentrato di pomodoro che arriva dall'Italia costa cinque volte meno dei pomodori locali. In Nigeria la carne più economica è quella importata da Germania e Inghilterra. E ancora: il 67% del latte consumato in Giamaica è di provenienza europea, e gli allevatori locali devono buttar via migliaia di litri di latte. Effetti perversi del dumping, cioè la vendita di beni al di sotto del costo di produzione e del prezzo di mercato. Frutto di una politica che tutela le grandi imprese del Nord, affossando i piccoli produttori del Sud.
Si scrive dumping, ma si può tranquillamente leggere "concorrenza sleale". Si tratta di un termine inglese che spiega come mai, in un mondo dove oltre un miliardo di persone deve sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, una mucca europea ne riceva invece ben due e mezzo e una sua collega giapponese addirittura sette. Grazie a questa cospicua dote, l'Unione europea è diventata il secondo produttore e il primo esportatore di carne bovina. In seguito alla crisi della mucca pazza e al crollo del 20% dei consumi di carne bovina in Europa, gli stock comunitari sono ulteriormente aumentati e le mucche del continente hanno girato ancora di più il mondo. Germania e Inghilterra hanno pensato bene di smaltire le loro eccedenze in Nigeria, esportandole al patetico prezzo di 0,2 euro al chilo e destabilizzando i mercati locali.
Bingo? No, più semplicemente, dumping.
Il problema delle eccedenze
Nei manuali di economia, il dumping viene definito come la vendita di prodotti al di sotto del costo di produzione e al di sotto del prezzo mondiale di mercato. Nella vita di tutti i giorni questo si traduce, ad esempio, nel fatto che in Ghana il concentrato di pomodoro prodotto in Italia costi cinque volte meno rispetto ai pomodori freschi locali. Difficile da giustificare con il costo di manodopera più basso, o con minori spese di produzione e trasporto. Il trucco sta infatti nei sussidi che i paesi industrializzati concedono ai loro produttori per favorire lo smaltimento delle eccedenze agricole.
In Europa, tutto ha origine negli anni '50, quando i sei paesi fondatori dell'allora Comunità economica europea, ancora traumatizzati dal recente passato di guerra e fame, danno vita alla Politica agricola comunitaria (Pac). Gli obiettivi principali sono garantire l'autosufficienza alimentare, migliorare la produttività e il tenore di vita dei contadini. All'inizio è un successo, ma negli anni '70 gli alti livelli di produttività raggiunti si traducono in saturazione del mercato e crescenti surplus. Oltre alle eccedenze agricole crescono anche le polemiche e si moltiplicano progetti e tentativi di riforma del sistema. Fino ad arrivare ai nostri giorni, quando la Pac costa 40 miliardi di euro all'anno, e comporta 23 euro in più di spesa settimanale per ogni famiglia europea. Un sacrificio per i consumatori che si traduce in un guadagno generale per i produttori europei? Non sempre, visto che il 70% dei sussidi della Pac finisce nelle tasche del 20% dei più grandi agricoltori europei. I piccoli produttori, che rappresentano il 40% dell'agricoltura europea, ricevono soltanto l'8% dei sussidi.
Concorrenza insostenibile
Ma a rimetterci sono soprattutto i paesi in via di sviluppo. In base ai dati del Rapporto sullo sviluppo umano 2002, i sussidi alle esportazioni praticati dai paesi industrializzati, in particolare Unione europea e Stati Uniti, si traducono in 100 miliardi di dollari l'anno di perdite per mancati introiti da parte dei paesi in via di sviluppo. Una somma pari al doppio dell'intero ammontare dei fondi stanziati per la cooperazione allo sviluppo. Ma prezzi più bassi non dovrebbero favorire i consumatori e migliorare l'accesso al cibo di una buona fetta della popolazione ancora malnutrita? Il problema è più complesso, perché i prodotti sovvenzionati rappresentano una concorrenza insostenibile per i produttori locali: chi ci rimette sono soprattutto i piccoli agricoltori, che perdono mercati e lavoro, con pesanti ripercussioni per il tessuto sociale e la sicurezza alimentare del paese. Più della metà della popolazione mondiale dipende dall'agricoltura o dal lavoro agricolo per il suo sostentamento. Inoltre, non sempre i prezzi per i consumatori alla fine sono più bassi: i prodotti venduti sottocosto spesso vengono utilizzati dagli intermediari locali per manipolare i prezzi a proprio vantaggio, importando e stoccando grandi quantità prima del raccolto per abbassare i prezzi da corrispondere ai produttori locali. Una volta comprati a basso costo i raccolti locali, le importazioni diminuiscono e i prezzi risalgono. I contadini ci perdono, e i consumatori non ci guadagnano.
Politiche protezioniste
La necessità di riformare il sistema è sotto gli occhi di tutti. I politici europei ne hanno discusso per decenni e finalmente, il 26 giugno scorso a Lussemburgo, nel corso del consiglio dei ministri dell'agricoltura dell'Ue, hanno varato la riforma della Pac. Questa prevede in particolare di tagliare, a partire dal 2005, il legame tra gli aiuti diretti versati agli agricoltori e il livello della loro produzione, e istituisce un sistema di pagamento unico diretto alle aziende agricole, condizionando la concessione di aiuti ad alcuni criteri ambientali e di sicurezza alimentare. Decisamente soddisfatto il ministro dell'agricoltura italiano, Gianni Alemanno: "Il principale obiettivo della riforma della Pac era rendere meno distorcente il sostegno alla produzione e, di conseguenza, più offensiva ed efficace la posizione dell'Unione europea di fronte ai propri partner multilaterali". Ma i sussidi all'esportazione restano. E infatti, di tutt'altro avviso è Sergio Marelli, direttore generale della Focsiv: "Con la riforma della Pac, l'Unione europea ha perso una grande occasione per dimostrare di voler concretamente aiutare i paesi del Sud del mondo. La scelta di mantenere intatto il capitolo dei sussidi diretti all'esportazione dei prodotti agricoli è incomprensibile: l'Unione europea, in contraddizione con la sua filosofia di piena apertura dei mercati, continua a perseguire, quando le fa comodo, la via del protezionismo".
Appuntamento a Cancùn
La partita si sposta adesso a Cancùn, dove sul tavolo della Conferenza ministeriale dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) c'è anche la rinegoziazione dell'Accordo che regola il commercio internazionale di prodotti agricoli (Aoa). Ma quali sono le proposte e gli scenari? Per molti, la soluzione del problema si trova in una ricetta chiara e incontrovertibile: più commercio internazionale. In particolare, i paesi industrializzati dovrebbero aprire i loro mercati ai prodotti provenienti dai paesi in via di sviluppo, in modo da rivitalizzare e rilanciare le economie di questi ultimi. Alcuni intravedono anche un possibile scambio: apertura dei mercati agricoli dei paesi ricchi in cambio della liberalizzazione del settore dei servizi nei paesi in via di sviluppo, attraverso l'accordo Gats (Accordo generale sul commercio dei servizi), che tanto fa gola alle multinazionali del Nord. Ma la semplice apertura dei mercati non significa automaticamente maggior ricchezza per tutti i produttori del Sud. "Da un punto di vista teorico il ragionamento funziona - spiega Umberto Triulzi, professore di economia all'Università La Sapienza di Roma - L'apertura dei mercati crea maggiori opportunità di esportazione, ma il discorso non vale allo stesso modo per ogni paese e per ogni prodotto. Non sempre legare la propria agricoltura al mercato internazionale è una soluzione che si rivela vincente".
I vampiri del mercato
L'esperienza del Forum sulla Sovranità alimentare, che la società civile ha organizzato in contemporanea al Vertice Fao sull'Alimentazione (giugno 2002), ha inoltre dimostrato come molto spesso l'agricoltura orientata all'esportazione faccia a pugni con la sicurezza alimentare di un paese. Per esportare frutta in Europa a prezzi competitivi, ad esempio, si sottraggono risorse alle colture destinate al consumo interno, a vantaggio dei grandi gruppi agroalimentari e a svantaggio della produzione agricola familiare e contadina. "La chimera dei mercati ricchi opera un forte processo di "vampirizzazione" dei sistemi agrari locali, lasciandoli alla mercé dei prezzi essenzialmente politici che le derrate alimentari hanno sul mercato globale - spiega Antonio Onorati, presidente del Centro Internazionale Crocevia - La sicurezza alimentare è un problema troppo complesso per essere risolto attraverso mere logiche commerciali. Sarebbe molto meglio se l'agricoltura venisse esclusa dall'Omc e affidata alle agenzie delle Nazioni Unite competenti, come Fao e Ifad, anche perché la produzione agricola mondiale destinata all'esportazione rappresenta soltanto il 10% del totale, ma pretende di regolare con i suoi meccanismi l'intero sistema". Da ciò deriva una triste contraddizione: "La maggior parte di quel miliardo e duecento milioni di affamati del pianeta si concentra proprio tra i piccoli produttori agricoli".
Dumping alimentare/1
Cotone e riso: l'Africa non compete
La coltivazione di un ettaro di cotone negli Stati Uniti costa 1.100 dollari, contro i 250 dollari di un ettaro in Mali o in Ciad. Eppure gli Usa sono diventati il primo produttore e, soprattutto, il principale esportatore mondiale di cotone. Le sovvenzioni promosse dall'Unione europea attraverso la Pac (Politica agricola comunitaria), e dagli Usa attraverso il Farm Bill, hanno stimolato artificialmente la produzione, causando sovrapproduzione e una vertiginosa caduta del prezzo del cotone sui mercati, ridottosi di due terzi dal 1995. Con grave danno per quei paesi, come il Burkina Faso, per cui il cotone rappresenta la principale coltura d'esportazione. "In Burkina - spiega l'agronomo Riccardo Capocchini, responsabile del Cisv nel paese - i produttori di cotone hanno da sempre ricevuto fertilizzanti e sementi a credito da una società, la Sofitex, originariamente con capitale francese e oggi con capitale statale e privato. I rimborsi avvenivano al momento del raccolto, sulla base del prezzo d'acquisto stabilito dall'impresa cotoniera. A partire dal 1998, i contadini si sono organizzati nell'Unione nazionale dei produttori di cotone burkinabé (Unpcb), acquistando il 30% del capitale della Sofitex e riuscendo a imporre condizioni più eque per i produttori. Ma, come risultato del dumping praticato negli ultimi anni e dell'abbassamento del prezzo di vendita, la Sofitex non riesce più a fornire sementi e fertilizzanti a prezzi agevolati, per cui i produttori non possono più coltivare il cotone. L'unica alternativa è quella di rivolgersi direttamente al mercato, dove i prezzi sono carissimi. L'aumento dei costi di produzione ha poi fatto salire il prezzo finale del cotone africano, ormai meno competitivo rispetto al prezzo mondiale".
Ma le pratiche di dumping non arrivano soltanto da Stati Uniti e Unione europea: in Africa, nell'area saheliana, si sta imponendo il riso proveniente dai paesi asiatici, in particolare dalla Tailandia, a seguito della tanto celebrata "rivoluzione verde". Nei paesi dell'Africa occidentale la produzione di riso locale si era molto sviluppata a partire dalla fine degli anni Settanta, ma oggi il riso tailandese, grazie alle sovvenzioni statali, si sta imponendo grazie a un prezzo inferiore. "Il riso tailandese è preparato in modo diverso da quello locale - racconta ancora Riccardo Capocchini - e siccome i suoi semi non si rompono, all'apparenza sembra più appetibile, facendo sì che i consumatori lo preferiscano".
Dumping alimentare/2
Latte europeo, Giamaica in polvere
Secondo i dati della Commissione europea, nel 2001 un terzo dei sussidi europei all'esportazione sono stati destinati alla produzione di latte e derivati. In particolare, l'Unione europea risulta essere il maggior esportatore di latte scremato in polvere. Ciò ha causato non pochi problemi, ad esempio, ai produttori della Giamaica, che nel 1992 ha abbassato le barriere doganali all'importazione di latte, e per compiacere la Banca mondiale ha eliminato i sussidi ai produttori locali. Ciò si è tradotto in una rapida crescita della quota di latte importato dai paesi europei, che nel 2000 ha raggiunto il 67% del totale. La disponibilità di latte in polvere importato ha spinto l'industria alimentare giamaicana a voltare le spalle al latte fresco locale, con particolare danno per i piccoli allevatori costretti a distruggere buona parte della loro produzione: 500.000 litri di latte sono andati buttati tra il 1998 e il 1999.
Dumping ecologico
I conquistadores transgenici
Degrado dei suoli, abuso di fertilizzanti chimici, smaltimento attraverso l'esportazione sui mercati dei paesi in via di sviluppo di prodotti non conformi alle norme di salute pubblica dei paesi industrializzati: sono solo alcuni esempi di come la corsa all'abbassamento dei costi di produzione spesso avvenga a scapito della tutela dell'ambiente e degli ecosistemi. "Il Sud America si sta trasformando in terra di conquista per l'industria biotecnologica: in forme legali, come in Argentina, o fraudolente, come nel sud del Brasile": è l'allarme lanciato dagli attivisti di Greenpeace. Dal 1996, anno in cui la Monsanto ha ottenuto l'autorizzazione a commercializzare la propria soia Roundup Ready, geneticamente modificata per tollerare l'erbicida Round-up (sempre prodotto da Monsanto), la produzione di soia è raddoppiata e per il 90% è ormai costituita da soia geneticamente modificata.
"La Monsanto - spiegano a Greenpeace - è riuscita a proseguire nella vendita dell'erbicida Round-up e a commercializzare la semente a prezzi estremamente competitivi rispetto alle colture convenzionali, proprio per la capacità di giocare con il fattore prezzo dei due prodotti. L'aumento dei profitti che si è così garantita le ha poi permesso l'assorbimento di aziende concorrenti, consolidando la sua posizione di leader del settore". L'espansione vertiginosa della coltivazione di soia è stata tale da farla divenire la prima coltura argentina per superfici e volumi di raccolto. Inoltre, la concentrazione delle terre acutizzata nel paese negli anni '90, ha espulso dalle campagne numerose famiglie contadine: la filiera della soia è solo l'undicesimo fra 14 comparti agroalimentari in termini di occupazione in Argentina. La soia ha come destinazione naturale l'esportazione, in particolare verso l'Europa, dove viene utilizzata come componente dei mangimi. In Brasile, invece, vige tuttora il divieto di coltivazione di varietà ogm. Ciò ha garantito al paese di mantenere integro il proprio sistema agrario. "Nonostante questo - afferma ancora Greenpeace - negli Stati del sud del paese si sono registrati negli ultimi anni casi sempre più numerosi di coltivazione illegale di ogm, per lo più soia entrata di frodo dall'Argentina. Nello Stato del Rio Grande do Sul si ritiene addirittura che un terzo della superficie coltivata a soia nel 2002 sia geneticamente manipolata. Gli agricoltori sono stati allettati dalla Monsanto ma recentemente la multinazionale ha minacciato di incassare le royalties che accompagnano il brevetto sulle sementi biotecnologiche".
L'azione viaggia in parallelo a una fortissima pressione sulle istituzioni brasiliane, per ottenere l'autorizzazione a commercializzare e a coltivare varietà ogm nel Brasile, oggi principale esportatore di soia non transgenica.
Dumping sociale
Diritti sindacali calpestati
Nella rincorsa forsennata al prezzo più competitivo tra imprese e paesi, spesso la strategia adottata è quella di pagare il minimo indispensabile e di sfruttare al massimo la forza lavoro. "La prossima Conferenza dell'Organizzazione mondiale del commercio si terrà proprio in un continente in cui questo tipo di pratica si sviluppa all'interno delle cosiddette "zone franche"". Lo denuncia Cecilia Brighi, responsabile del dipartimento internazionale del sindacato Cisl.
"In Guatemala, Honduras, El Salvador questo tipo di zone, che nascono con leggi speciali per attrarre gli investimenti esteri, si fondano sullo sfruttamento sfacciato dei lavoratori e delle lavoratrici. Nelle zone franche, che beneficiano di una serie di agevolazioni fiscali e doganali, si sospendono esplicitamente i fondamentali diritti dei lavoratori, come quelli di organizzazione sindacale, di contrattazione, di sciopero, e le norme sulla salute e la sicurezza".
Queste aree speciali non sono però una peculiarità dell'America Latina. In Cina occupano oggi circa 30 milioni di lavoratori, dopo che il loro numero si è decuplicato nel corso degli ultimi anni. Ma lo sfruttamento intensivo dei lavoratori avviene anche al di fuori delle zone franche, con il lavoro dei bambini che continua a crescere e con il lavoro forzato, come in Birmania o in Cina. "Nei paesi poveri extra-europei o nell'Europa dell'Est dove il dumping sociale è estremamente presente - continua Cecilia Brighi - la gran parte delle imprese è di proprietà o ha legami con imprenditori europei, statunitensi o giapponesi. Per questo il sindacato chiede da sempre all'Omc di inserire nei negoziati il pieno rispetto dei diritti fondamentali, per dire no al dumping fatto sulla pelle di chi lavora".
A colloquio con Pascal Lamy
Ecco perché liberalizzare il commercio
Il rappresentante del commercio europeo, Pascal Lamy, è in marcia verso Cancùn con uno sconosciuto eurobagaglio di proposte che i membri dell'Ue gli hanno affidato in vista del Vertice autunnale dell'Organizzazione mondiale del commercio. Una tappa di mezzo cammino in vista del negoziato finale, fissato nel 2004. Lamy non chiude la porta in faccia alle ong che vorrebbero incontrarlo, ma si capisce benissimo che, almeno per lui, il dumping non sarebbe un problema. "Tutto gira intorno agli affari" premette l'eurocommissario, relegando subito nel recinto del velleitarismo molte proposte della società civile. "Una maggiore apertura dei nostri mercati ai prodotti agricoli di altri paesi - afferma Lamy - insieme alla riduzione di aiuti interni e alle esportazioni fanno parte della trattativa".
Cioè li calerete sul tavolo per raggiungere, ad esempio, qualche compromesso nella privatizzazione dei servizi?
Tutto si raggiunge con un compromesso.
Pensa che nel settore agricolo ci siano regole giuste a livello mondiale?
L'Unione europea punta soprattutto al trattamento differenziato paese per paese, e al fatto che i paesi in via di sviluppo debbano giocare un ruolo più importante nell'ambito dei negoziati. Devono cioè appropriarsi del negoziato.
Come si fa ad appropriarsi di un negoziato dominato dalle regole dei più potenti?
Bisogna stare al gioco della liberalizzazione del commercio. Molti paesi in via di sviluppo si lamentano senza rendersi conto dei vantaggi che un negoziato ben giocato può comportare. Anche loro dovranno essere protagonisti di un vertice di successo. Se questo avverrà, l'economia internazionale tutta ne avrà effetti positivi.
Come rappresentante del commercio europeo quindi lei non vede colpevoli nell'ambito della politica commerciale?
Diciamo che mi piacerebbe che anche Stati Uniti, Giappone e Canada seguissero l'Ue nell'andare incontro alle esigenze dei paesi in via di sviluppo.
L'Ue si sente la coscienza a posto? Il divario tra Nord e Sud è sempre più ampio...
Sforzarsi di migliorare le cose è sempre possibile, ma credo che sarebbe ora di cominciare a guardare il mondo anche in un'ottica Sud-Sud.
Stati Uniti e Ue si fronteggiano sul versante degli ogm. Resisterà la moratoria europea alle trattative di Cancùn?
Ci stiamo opponendo agli ogm perché ancora nessuno ci ha dimostrato che siano davvero miracolosi come gli Usa vogliono farci credere. Ma è evidente che siamo disposti a rivedere le nostre posizioni nel momento in cui avremo la certezza della loro assoluta affidabilità. Non siamo contrari né agli ogm né alle biotecnologie. Siamo culturalmente più cauti rispetto agli Stati Uniti. Loro però esagerano, e quando affermano che il nostro atteggiamento affama il Terzo Mondo dicono cose assurde. L'Unione europea ritiene che tutti i paesi debbano poter scegliere autonomamente e in libertà la loro alimentazione.
Campagna No Dumping
A che punto siamo
"On. Silvio Berlusconi, Dear Mr. Pascal Lamy": è questa l'intestazione delle cartoline della campagna "No Dumping", che chiede l'abolizione dei sussidi alle esportazioni europee e un commercio internazionale più trasparente. Alla campagna, promossa da Volontari nel mondo-Focsiv e dal settimanale Vita, hanno aderito numerose associazioni, tra cui Amici della Terra, Arci, Banca Etica, Centro Internazionale Crocevia, Cisl, Cipsi, Greenpeace, Legambiente, Manitese, Movimondo e Wwf. Le cartoline inviate via posta o via Internet hanno superato quota 50 mila e sono state consegnate il 5 settembre al Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri dell'Ue, riuniti a Riva del Garda, in vista della Conferenza di Cancùn.
Info: www.focsiv.it
di Emanuele Fantini