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Educazione e comunità: un’università indigena nel Messico centrale
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Il pedagogista brasiliano Paulo Freire affermò che la verità dell’oppressore è radicata nella coscienza dell’oppresso. E’ così che Mario Monroy, direttore dell'Instituto Intercultural Ñöñho, mi spiega da dove nasce la necessità di questa università interculturale. Siamo a San Ildefonso Tultepec, una zona rurale a maggioranza indigena dello stato di Querétaro, nel Messico centrale. L’etnia locale si chiama Otomí, detta Ñöñho nella stessa lingua indigena, la quinta più parlata in tutto il Messico. L’obiettivo principale dell’istituto è quello di fornire accesso all’educazione superiore ad una parte della popolazione, quella indigena, che ne rimane prevalentemente esclusa. I dati ufficiali riportano infatti una percentuale compresa tra l’1 e il 3% della popolazione indigena che ha la possibilità di accedere agli studi superiori. Il fatto che i dati siano approssimativi la dice lunga sull’interesse del governo messicano nell’affrontare la questione. Solo due borse di studio per ogni stato sono destinate dalla CDI, la commissione per lo sviluppo indigeno, a studenti indigeni che intendono intraprendere una carriera universitaria. Oltretutto la popolazione indigena è distribuita in maniera molto diseguale nei vari stati messicani, a ulteriore testimonianza della logica perversa di questi aiuti.
L’Instituto Intercultural Ñöñho ha compiuto 5 anni lo scorso 12 ottobre, giorno della hispanidad secondo gli spagnoli, giorno della razza in molti paesi latinoamericani, Messico incluso. Qui all’istituto si preferisce però parlare di giornata dell’interculturalità. Per far convivere diverse culture e diversi approcci al sapere è infatti fondamentale l’approccio scientifico alla conoscenza, come mi spiega Mario, ma anche molti aspetti della conoscenza tradizionale dei popoli indigeni vanno riscattati e valorizzati. La lingua indigena, per esempio, da queste parti si sta perdendo e sono quasi solamente gli anziani a parlarla. All’istituto interculturale si impara anche l’otomí, che è una lingua complessa e dalla pronuncia difficile. L’obiettivo è quello di formare giovani istruiti nell’ambito dell’economia solidale (qui c’è l’unico corso di laurea in “economía solidaria” di tutto il Messico) che possano implementare progetti produttivi nelle loro stessa comunità. All’istituto sono legate anche alcune attività produttive: una cooperativa industriale addetta al taglio e al confezionamento di piastrelle per conto di una ditta produttrice, ed un progetto di autoproduzione di alimenti cui stanno partecipando venti famiglie della zona. L’idea è che l’istituto possa sfornare anche professionisti responsabili che si impegnino nell’implementazione di questi ed altri progetti.
La maggioranza degli studenti è costituita da ragazzi, e soprattutto da ragazze, provenienti da comunità indigene. L’interculturalità è importante anche nell’ottica di stabilire relazioni differenti tra i vari popoli messicani (68 diverse etnie e altrettante lingue indigene) e la cultura dominante, in una logica di rispetto, non basata sulla dominazione di una cultura sulle altre.
San Ildefonso è composto da 11 barrios sparsi nei campi, dove si coltivano il mais e il maguey, un’agave con la quale si producono pulque, una bevanda alcolica fermentata, e l’ixtle, una fibra utilizzata fin dall’epoca precolombina. Qui molte strade sono di ciottoli e alcune persone usano ancora il cavallo per spostarsi. L’aspetto bucolico nasconde però varie problematiche sociali: alcolismo e violenza familiare sono molto diffusi, e tutte le famiglie hanno qualche membro emigrato negli Stati Uniti in cerca di lavoro. Alcuni ritornano, pochi con qualcosa messo da parte, molti espulsi per problemi legati all’assenza di documenti o al consumo di stupefacenti, altri rimangono al di là del confine e tornano di tanto in tanto qui nel “rancho”. Il servizio sanitario è molto carente, le abitazioni precarie, non esistono fognature e le opportunità di lavoro, al di là del lavoro nei campi, sono molto scarse.
Ora la maggior parte degli studenti dell’istituto ha una borsa di studio e la maggior parte di esse è ottenuta grazie ad organizzazioni o privati che si impegnano a sostenere l’istituto senza farsi pubblicità. Mario mi racconta poi che ci sono stati casi di studentesse che arrivavano a lezione con i segni delle percosse dei loro genitori, che non vedevano di buon occhio il fatto che le ragazze andassero all'università: qui infatti la maggior parte delle persone pensa ancora che le donne debbano esclusivamente restare in casa a svolgere i lavori domestici. Alcuni studenti devono camminare anche due ore per arrivare all’istituto, ed è inspiegabile come possano trovare lo spazio e la tranquillità per studiare nelle case modeste e precarie dove abitano. “In casa o più in generale nella comunità questi ragazzi e ragazze non sono valorizzati, ma è quando si danno loro delle responsabilità che esce il meglio di ognuno di loro”, mi spiega Mario, ed il loro impegno diventa un esempio positivo per altre ragazze e ragazzi delle stesse comunità. I risultati sono incoraggianti, della prima generazione sono riusciti a laurearsi otto studenti, quattro della seconda e pochi mesi fa sono entrati venti nuovi studenti e studentesse. Due studenti della prima generazione sono poi riusciti ad ottenere borse di studio per accedere a master di importanti università messicane. L’impegno è però quello di investire la conoscenza acquisita in progetti a favore delle loro stesse comunità, per cercare di migliorarne le condizioni socio-economiche, per promuovere la partecipazione, la difesa del territorio, l’implementazione di processi partecipativi nelle comunità.
In Messico ci sono 14 università indigene, ma la maggioranza di esse è controllata dallo Stato, pertanto non godono di alcuna autonomia ed i rettori sono strettamente legati al politico di turno. Le università autonome godono di molta più libertà, ma sono spesso sotto pressione per reperire i fondi con cui finanziare le proprie attività. L’Instituto Intercultural Ñöñho ha vissuto due anni di difficoltà estreme in questo senso, e si è preferito chiudere temporaneamente l’accesso a nuovi studenti. I professori, profondamente coinvolti ed impegnati in questo progetto educativo, hanno addirittura lavorato gratis durante questo periodo, mantenendosi grazie ad altri impieghi.
All’istituto, oltre all’educazione formale, si promuovono altri progetti paralleli. Uno di questi è legato al teatro comunitario, che diviene mezzo di espressione alla portata di molti dove si attua un processo di creazione collettiva per quanto riguarda la ricerca dei temi da trattare, la scrittura del copione, la definizione dei personaggi, e si denunciano diverse problematiche della zona. Nell’edificio che ospita l’istituto è stato creato anche un museo comunitario, dove si stanno riscattando e valorizzando vari aspetti storico-culturali.
In dicembre uscirà la terza generazione di otto studenti, ancora una volta con l’impegno fondamentale di spendersi a favore della propria comunità, della propria cultura e della propria identità.