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Disarmare il linguaggio, via per la pace
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“Siamo in guerra!”. Sulle macerie del World trade center, il Presidente “per caso” George W. Bush vestiva improvvisamente i panni del “commander in chief” e lanciava la guerra globale al terrorismo. Sappiamo quello che è successo dopo. Una campagna, quella in Afghanistan, ancora in corso, con esiti perlomeno deludenti; la catastrofica seconda guerra di Iraq con conseguenze devastanti e difficilmente calcolabili perché ancora non del tutto dispiegate; attentati terroristici sotto la regia di Bin Laden, poi eliminato in circostanze oscure, ma “risorto” in un nuovo personaggio, molto diverso da lui, Abu Bakr Al Baghdadi, il fantomatico califfo dello Stato Islamico; nuovi attentati, soprattutto in Europa. La “guerra infinita” e globale di Bush sta diventando davvero tale.
Se nella prima decade di questo secolo molti in Europa, anche a livello di governi, cercavano di balbettare qualche parola alternativa a questa tendenza bellicista, ora dopo le stragi francesi tutti si sono messi l’elmetto. Almeno stando ai proclami solenni di un Francois Hollande. “I terroristi ci hanno dichiarato guerra”: potrebbe essere anche vero, ma l’evocazione del termine “guerra” dovrebbe portare a delle conseguenze che, per fortuna, non possono essere messe in atto. Per fare un esempio: durante la seconda guerra mondiale “tutti” gli italiani erano nemici di “tutti” gli inglesi e vice versa; così missionari italiani in Africa che sicuramente non prendevano parte attiva al conflitto, erano automaticamente arrestati e confinati in campi di concentramento. Oggi, secondo la stessa logica, bisognerebbe considerare “tutti” gli arabi nostri nemici e quindi agire di conseguenza. Non siamo ancora arrivati a questo.
Siamo in guerra, ma non possiamo in realtà esserlo per davvero. Allora, per dare un segnale ai cittadini impauriti, assistiamo a una guerra a bassa intensità che si manifesta in missioni militari (di soli aerei o droni) contro le “basi del terrorismo” e nella messa in discussione delle conquiste politiche raggiunte nei nostri Paesi. Se siamo in guerra, qualcosa bisognerà pur fare. Allora ce la prendiamo con gli stranieri, con i migranti, con i diversi in generale (oggi sono i musulmani). La paura aumenta. I movimenti nazionalistici e anti democratici conquistano sempre più consensi. I discorsi da bar della gente comune, che sono diventati post sui social network, trasudano di odio. Parole che, se tradotte in pratica, ci farebbero piombare nella barbarie.
Una volta lo scrittore israeliano Amos Oz riportava un suo scambio di battute con un normale tassista che aveva l’originale sogno di “uccidere tutti gli arabi”. Oz, con ironia, sapendo di non poter contrastare con ragionamenti logici questo desiderio, smontava il proposito con una sola domanda: “Bene, cominci tu dalla famiglia di arabi che abita al piano di sopra del tuo condominio?”.
Purtroppo nella storia è avvenuto anche questo: che si cominciasse la strage dal vicino di casa. Polonia 1940, Ruanda 1994, ex Jugoslavia 1994. Ci sono molti altri casi.
La retorica della guerra porta ora all’aumento della tensione e dell’odio. Finchè arriverà qualcuno che la guerra la vorrà fare per davvero. E saranno guai. Qualcuno vorrebbe per davvero un conflitto globale. Parlare di “guerra” al terrorismo significa incamminarci in questa via senza ritorno.
Ci troviamo allora di fronte a due scenari giustapposti e ugualmente inquietanti. Guerre vere (che fanno parte di quella “terza guerra mondiale a pezzetti” stigmatizzata da Papa Francesco) e guerre di parole. L’esito è “caoslandia” come Lucio Caracciolo, direttore di Limes, ha definito l’attuale disordine mondiale. Caracciolo ha calcolato che si stanno combattendo ben 29 guerre se contiamo anche repressioni interne agli Stati e movimenti di guerriglia. Ma forse sono molte di più.
Mentre a livello geopolitico le varie organizzazioni per la pace e per i diritti umani sembrano poter fare ben poco, l’attivismo si concentra allora sulle campagne di mobilitazione contro la proliferazione nucleare, per il controllo delle armi leggere, per il monitoraggio sul traffico di armi, contro le mine anti uomo; oppure si lavora su specifici casi come in queste settimane sta avvenendo per la tragica vicenda Regeni.
Si è detto molte volte: per creare percorsi di pace occorre disarmare il linguaggio. Assuefarci alla retorica del “siamo in guerra” significa dare per scontato che la soluzione bellica sia la sola sul tappeto. Ma la guerra, lo abbiamo visto in questi anni del nuovo secolo, non ferma, ma alimenta il terrorismo. Stessa cosa per la “guerra ai migranti” che stiamo facendo in Europa. Il nemico arriva con i gommoni. Ovviamente tutto questo è falso. Vi ricordate la vicenda del tunisino, arrivato con un barcone in Italia, ma che in realtà avrebbe partecipato all’attentato terroristico del Bardo a Tunisi? Da alcuni giornali questa storia era la prova evidente che tra i migranti ci fossero terroristi, anzi che i migranti fossero terroristi. Come previsto e prevedibile, era tutto falso.
Ancora una volta l’informazione e la comunicazione contano tantissimo. Questione di parole, si potrebbe dire. E tutti, nel nostro piccolo, possiamo lavorare per un cambiamento di paradigma lessicale capace di proporre la pace, e non la guerra, come orizzonte possibile di questo tormentato mondo.
Anche di questo si parlerà oggi, all'interno della due giorni "Partiti al mondo come soldati" con il convegno “Memoria, presente, prospettive: capire le guerre per costruire alternative di pace”. Ospitata presso la sede della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento, la giornata di giovedì 21 aprile (9.00-17.00) sarà dedicata a una riflessione che, traendo spunto dalle celebrazioni della Grande Guerra, si spingerà fino ai giorni nostri, indagando le evoluzioni (o involuzioni?) delle operazioni belliche e dei linguaggi mediatici che le accompagnano, esplorando i silenzi sugli episodi di sangue risparmiato e interrogandosi sulle forme assunte dalle cosiddette nuove guerre. In un’ottica chiara: provare a capire quali strategie politiche Governi e Istituzioni possano mettere in campo, in collaborazione con la società civile, per un futuro di pace.
Qui è possibile vedere LA DIRETTA STREAMING (dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.30 alle 17.00)
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.