Di cosa parliamo quando parliamo di genocidio

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Foto: Unsplash.com

Quando nasce l’idea di genocidio e quando diventa la «g-word», il concetto tabù che esprime una sorta di limite tra civiltà e barbarie, un limite tra l’umano e il disumano? 

Sul muro dell’Università La Sapienza un piccolo graffito, in caratteri ben ordinati, cattura il mio sguardo: «Stop Ethnic Cleansing in Gaza». Rispetto alle migliaia di scritte lette sui muri di tutte le città che ho attraversato nell’ultimo anno mi colpisce per il suo tono sobrio e ragionato. L’autrice o autore ha scelto di non usare la parola genocidio quanto piuttosto l’espressione «pulizia etnica», una categoria diffusasi nel linguaggio politico occidentale negli anni Novanta, con le guerre balcaniche. Questa scelta mi fa pensare che non abbia scritto in preda alla rabbia, ma che abbia valutato con cura la parola più appropriata per definire il massacro e la rimozione forzata di palestinesi in corso a Gaza. Cosa lo ha spinto a quella cautela? È studente di giurisprudenza che tiene all’uso oculato dei concetti giuridici? Critica Israele ma pensa che il genocidio sia da riservare a eventi come l’Olocausto, non paragonabile a un massacro che pure ha prodotto più di 40.000 morti, per la maggior parte di giovane età, e che minaccia di sfociare in un progetto di deportazione di massa? Se avessi potuto parlarci, gli avrei chiesto perché aveva scelto di evitare la «g-word».

Da un anno sono alle prese con la scrittura di un libro che ripercorre la storia del concetto di genocidio. Ho deciso di scriverlo proprio perché colpito dalla discussione in atto su Gaza e, ancor prima, sulla guerra russo-ucraina. In quel caso il concetto è stato usato da entrambe le parti, sia da Putin per accusare Kiev della sua politica verso le popolazioni del Donbass che dai politici ucraini e da molti leader occidentali per condannare la guerra avviata da Mosca. La parola genocidio sembra essere ormai ovunque. La si grida alle manifestazioni, la si discute sui giornali e persino nei talk show televisivi. Perché, questa è la domanda che mi ha portato a scrivere il libro, abbiamo tanto bisogno di parlare di genocidio? Come ha fatto un concetto giuridico a entrare nel linguaggio comune e quali bisogni soddisfa?

Scartiamo subito un luogo comune diffuso. Il termine genocidio non può essere ridotto a una mera categoria di diritto internazionale, della storia o delle scienze sociali. È diventato, soprattutto negli ultimi trent’anni, un sorta di «significante fluttuante», molto carico di senso e polisemico. Inoltre, per tornare alla scritta sul muro de La Sapienza, è un concetto che esprime e suscita emozioni, è un terreno di battaglia. La maggior parte di coloro che lo usano oggi per denunciare quello che succede a Gaza lo fanno per dare più forza alla loro argomentazione: non è in corso un qualunque massacro, vogliono dire, ma il «crimine dei crimini». È una sorta di «doppio scandalo» che eleva quel crimine al di sopra degli altri, un dito puntato contro chi si muove fuori dal perimetro della comunità civile...

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