Darfur: per l'Onu non è genocidio

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Otre 70 mila persone sgozzate, duemila villaggi devastati, un milione e mezzo tra profughi e sfollati non sono bastati alla Commissione d'inchiesta dell'Onu per definire come "genocidio" la strage che sta avvenendo nel Darfur, Sudan occidentale. La Commissione riconosce che sono stati perpetrati "atti di genocidio", i cui responsabili sono individuati anche in alti funzionari governativi, ma il governo del Sudan "non ha perseguito una politica di genocidio nel Darfur". Secondo il Rapporto presentato nei giorni scorsi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, mancherebbe "l'elemento cruciale", cioè "l'intenzione di genocidio ", "per lo meno per quel che concerne le autorità del governo centrale". Una conclusione - precisa la Commissione - che "non deve essere interpretata in alcun modo come minimizzante la gravità dei crimini perpetrati nella regione", perché "abusi riconosciuti internazionalmente come crimini contro l'umanità e crimini di guerra sono stati commessi nel Darfur e sono forse non meno gravi di un genocidio". Non si tratta di una questione di lessico: secondo la Convenzione internazionale del 1948, ravvisare il genocidio significherebbe far intervenire le forze dell'Onu e decretare sanzioni.

Un verdetto che, comunque, non ha accontentato nessuno, dato questo che depone a favore dell'indipendenza della Commissione. Non è piaciuto al ministro degli esteri Mustafa Osman Ismail, che ha già annunciato una pronta e dettaglia risposta all'Onu. Il governo del presidente Omar al Bashir è accusato, infatti, di aver sostenuto e appoggiato direttamente le violenze dei Janjaweed, i terribili "diavoli a cavallo" che dall'agosto 2003 non hanno smesso di assaltare villaggi, uccidere e violentare donne e bambine in quella che viene definita la più grave crisi umanitaria oggi nel mondo.

Ma il Rapporto ha scontentato anche i gruppi che si oppongono al governo di Khartoum. "Se tale rapporto afferma che non c'è genocidio in Darfur, allora lo respingiamo ", ha dichiarato all'agenzia Reuters Khalil Ibrahim, leader del Movimento per la giustizia e l'eguaglianza (Jem). E il leader dell'altro gruppo di opposizione, Abel Wahed Mohamed al-Nur, del Movimento di liberazione del Sudan (Slm) si è spinto ad affermare che "la decisione di escludere il genocidio è stata politica".

Una dichiarazione che tocca un nervo scoperto. Spetta infatti ora al Consiglio di Sicurezza dell'Onu valutare le conclusioni del voluminoso rapporto della Commissione d'inchiesta indipendente presieduta dall'italiano Antonio Cassese. La Commissione ha fatto due raccomandazioni importanti: incaricare la Corte penale internazionale (Cpi) di perseguire i presunti colpevoli e creare una commissione per il risarcimento delle vittime.

Raccomandazioni che, come le conclusioni del rapporto, non piacciono a nessuna della parti in questione. Gli Stati Uniti vorrebbero una condanna più decisa ed intendono premere per l'incriminazione delle autorità sudanesi, ma non davanti a quella Cpi che gli Usa non hanno mai riconosciuto. Una delle proposte dell'amministrazione Bush sarebbe quindi di ampliare le competenze del Tribunale penale per il Rwanda.

Dall'altra parte, invece, Cina e Russia non hanno intenzione di scontentare Khartoum, soprattutto ora che l'accusa di genocidio non ha trovato conferma nel rapporto. Il motivo è semplice: Mosca e Pechino intrattengono ottimi rapporti commerciali col Sudan. Secondo le statistiche doganali Onu (Comtrade), nel 2002 il primo acquirente del petrolio sudanese è la Cina: Pechino, per sostenere la propria economia galoppante, ne ha acquistato per ben 940 milioni di dollari, oltre i due terzi di tutta la produzione sudanese. La Russia, invece, rifornisce di armi Khartoum: oltre agli Antonov usati dall'aviazione sudanese per bombardare i villaggi del Darfur a sostegno delle incursioni dei Janjaweed, nel 2001 sono arrivati in Sudan dalla Federazione Russa, via Bielorussia, 20 carri armati T-55M, mentre sempre nel 2002 tra Sudan e Russia sarebbe stato siglato un accordo di cooperazione militare e Khartoum avrebbe ordinato 12 cacciabombardieri Mig-29. Insomma, oltre alla questione politica, c'è quella dei rapporti economici.

L'Unione europea propone di attivare la Cpi. Una proposta meno costosa e sostenuta da numerose Organizzazioni non governative internazionali. Ed occorre far presto. Nonostante l'accordo di deporre le armi, le scorribande dei Janjaweed continuano. E dopo Bosnia e Rwanda non si vorrebbe vedere l'ennesimo fallimento dell'Onu bloccato dalle contrapposizioni politiche del Consiglio di sicurezza.

di Giorgio Beretta

LA SCHEDA

Da decenni in Darfur, la regione nord-occidentale del Sudan grande quanto la Francia, si combatte una guerra di matrice tribale. Le rivalità interetniche tra pastori nomadi arabi ed agricoltori e allevatori sedentari neri sono passate dalla bassa intensità degli anni '50-'70, ad un conflitto su larga scala dalla metà degli anni '80. Conflitto che si è acuito a partire dal marzo del 2003 quando due movimenti ribelli - il Movimento per la giustizia e l'eguaglianza (Jem) e il Movimento di liberazione del Sudan (Slm) - si sollevarono in armi contro il governo sudanese accusandolo di trascurare il Darfur, perché abitato prevalentemente da etnie, prevalentemente nere, diverse dalla loro (Fur, Masalit, Jebel, Aranga e Zaghawaneri) e di finanziare i predoni di etnia araba noti come Janjaweed.

Il Rapporto ora all'attenzione del Consiglio di Sicurezza è stato originato dalla risoluzione Onu 1564 dello scorso autunno ed è il frutto del lavoro di una commissione d'inchiesta indipendente presieduta dall'italiano Antonio Cassese di cui fanno parte altri quattro qualificati esperti internazionali: Mohammad Fayek (Egitto), Hina Jilani (Pakistan), Dumisa Ntsebeza (Sudafrica) e Therese Striggner-Scott (Ghana). La Commissione si è recata due volte nel Darfur ed è stata affiancata, oltre che da numerosi osservatori, anche da 13 investigatori che hanno perlustrato il Darfur per tre mesi. [G.B.]

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