Da cittadini a raccoglitori: la foresta in città

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Roma, qualche anno fa, durante uno dei tanti viaggi sconquassati fatti di strade sconnesse e pensieri brulicanti guardando fuori dal finestrino di un autobus che sembra il vagone di qualche treno dimenticato. All’improvviso un viale di aranci, palle di un giallo sferzante come fosse Natale si alternano a insegne di negozi, panni stesi e terrazzini anneriti dal tempo e dai passaggi. È lì che forse più di altre volte mi sono chiesta come mai non capiti più spesso di vedere alberi da frutto ai bordi delle strade delle nostre città. Non mi fraintendete, lungi da me promuovere frutteti cresciuti a smog e acque di scolo. Era quello che rappresentavano mentre si ergevano irriverenti tra le macchine parcheggiate e il marciapiede zozzo che mi colpì più di ogni altra cosa, l’idea di un bene di tutti a portata di tutti, ad autentico chilometro zero. Un chilometro zero decisamente discutibile, sono la prima a rilevarlo senza poter evitare quel riso amaro di cui è maestro Natalino Balasso, che in maniera inappellabile evidenzia alcune delle contraddizioni più eclatanti delle nostre abitudini alimentari, senza esclusione di colpi anche verso gli sforzi per renderle più sostenibili. Però l’idea, se messa a punto per bene, ha un gran potenziale.

Mi spiego meglio, e lo faccio con un salto di qualche chilometro, da Roma a Seattle, precisamente nell’area di Beacon Hill, dove è diventato realtà il sogno della più grande foresta alimentare pubblica del mondo, che stima la possibilità di poter fornire agli abitanti della città il 5% degli alimenti necessari al proprio fabbisogno. Poco? Forse, ma di gran lunga superiore a quello scarno 1% di autonomia nello sfruttamento delle proprie aree verdi raggiunto dalle più grandi metropoli del mondo. Segnatevi dunque questo nome, Beacon Food Forest, uno dei più intriganti progetti di permacultura del futuro, con lo scopo di disegnare, piantare e crescere un giardino urbano di frutti commestibili, che ispiri la comunità a tornare alle antiche – e probabilmente mai del tutto dimenticate – abitudini, quelle di raccoglitori. Un modo per produrre insieme e riabilitare l’ecosistema, che sulla scia degli orti comunitari arriva un po’ più lontano nel tentativo di rigenerare gli spazi pubblici comuni e ridurre l’impatto ambientale causato dalle attività agricole (meglio, dalle macchine impiegate nelle attività agricole), contemporaneamente fornendo opportunità educative e occasioni per celebrare un cibo che sia un bene di tutti.

Il fatto è che, forse, al nostro vocabolario edito dall’ansia della crescita e della crisi economica mancano un paio di lemmi:

#permacultura, ovvero un approccio olistico che progetta gli insediamenti umani e i sistemi agricoli riproducendo le relazioni che si incontrano in natura e che, sviluppato all’inizio degli anni ‘60, ha come pilastri centrali tre fondamenti dell’etica: cura per la terra, cura per le persone, onesta condivisione. Se vi incuriosisce vi consiglio di dare un’occhiata ai video di Geoff Lawton, esperto in permacultura e design che ha dedicato la vita a trasmettere in più di 30 Paesi “la passione che salverà il mondo”;

#foodforest o #forestgarden, cioè foreste-giardino che “imitano” l’ecosistema di una foresta utilizzando però alberi, cespugli e piante con frutti commestibili: alberi da frutto e di noce per i livelli superiori, cespugli di piccoli frutti e piante annuali e perenni per i livelli inferiori.

Molteplici sono dunque gli scopi di iniziative come quella di Seattle, tra i quali vale la pena evidenziare da un lato un’operazione di salvaguardia della biodiversità e dall’altro l’attenzione alle dinamiche di coesione sociale che intessono le reti delle relazioni all’interno della comunità la quale, curandosi del cibo di tutti, si educa all’inclusione e all’attenzione verso il prossimo. Il progetto punta a fornire inoltre la possibilità di raccogliere frutta in maniera libera e gratuita in un luogo che sia al contempo spazio di gioco e incontro, dedicato ad attività didattiche e formative per famiglie e bambini, nel pieno rispetto dei ritmi della natura e nell’intento di condividere la maniera corretta per riconoscere, raccogliere, conservare e utilizzare le diverse specie vegetali che cresceranno nell’area e che saranno quasi completamente autosufficienti. Avranno infatti bisogno di interventi minimi per quanto concerne innaffiatura, weeding (diserbo) e fertilizzazione, e garantiranno quindi un consumo minimo di risorse.

Seattle si avvia dunque ad essere una transition town che assiste all’integrazione di attività prettamente agricole con gli stili di vita tipici dei centri urbani. Delle “città” di Transizione esiste anche un coordinamento italiano, nato sul territorio dalla preoccupazione di rispondere ai rischi e alle opportunità che si presentano a causa del picco del petrolio e del cambiamento climatico. Un percorso che coinvolge la comunità mettendo in atto un processo concreto di informazione, sensibilizzazione e costruzione di un’alternativa creativa che lavori in sinergia con amministrazioni locali, altre realtà già esistenti sul territorio e nuovi gruppi costituitisi per occuparsi di esigenze specifiche, al fine di elaborare un Piano di Decrescita Energetica entro una scala temporale di 15/20 anni. Giocando su due punti cardine: da un lato la produzione di progetti tra loro coordinati e integrati nei vari ambiti della vita sociale; dall’altro la convinzione che la creatività e l’adattabilità dimostrate dall’uomo nei secoli di progresso che si sono succeduti permettano, se plasmate in maniera collettiva e coordinata, di affrontare con successo il percorso di decrescita che si prospetta all’orizzonte come imprescindibile.

Anna Molinari

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