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Cosa ci sta succedendo?
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Foto: Unsplash.com
In questa analisi Marco Revelli ragiona sul perché in Europa pace, disarmo, “non uccidere” sono diventati impronunciabili. Lo fa partendo dalla passioni tristi di cui tanti nomi noti sono stati travolti, da Galimberti a Scurati passando per Vecchioni (l’autore di Samarcanda, la canzone dei soldati che buttano le divise…), ma a rendere questo articolo prezioso è l’approfondimento proposto intorno a quella che probabilmente è la causa principale della regressione di questo tempo: la dissoluzione delle relazioni comunitarie che ha sconvolto la società, il mondo dei lavoratori, anche la scuola. “Quanto più cresce l’insoddisfazione per la propria quotidianità, tanto più si dilata la fascinazione della guerra. Al centro del vuoto e di quella insensatezza della vita quotidiana sta la solitudine. Il processo di radicale individualizzazione che ha segnato gli ultimi decenni… Smontare questo dispositivo di disciplinamento stratificatosi negli anni richiederà molto sforzo e molto tempo… Occorrerà essere intransigenti…” .
La domanda è: “Che cosa ci sta succedendo?”. Qualcosa è entrato nelle nostre vite, e nelle nostre menti. Qualcosa che ha cambiato alcuni fondamentali. Una sorta di decostruzione sistematica dei principali fondamenti della civiltà. Della civiltà europea, dove la parola pace per un’ottantina di anni era stata la principale ragione dell’Unione e ora è diventata quasi impronunciabile, una sorta di tradimento della patria. O dove Riarmo, da evocazione di sciagure è diventato il punto principale dell’agenda politica. Ma anche della civiltà in quanto tale. Con la caduta di alcuni interdetti – a cominciare dal Comandamento “Non uccidere” -, che dopo le esperienze devastanti del Novecento sembravano stabiliti in modo definitivo. E invece no. La fine da evento impensabile è diventata un’opzione disponibile.
Tre anni fa, subito dopo il famigerato 24 febbraio del 2022, di fronte all’ondata di passione bellica che ne era seguita, avevo riesumato un vecchio saggio di Jung dedicato a Wotan, l’archetipo della furia distruttiva, il capo della caccia e della battaglia nella fosca mitologia germanica. Wotan – diceva Jung e la cosa mi colpì perché offriva un’immagine (un volto) a ciò che stavamo vivendo -, è un Ergreifer (dal termine Ergreifenheit, stato di possessione), dunque un’entità – un “demone” – che “possiede” gli altri, le persone più che le cose. Un vento impetuoso – vento di tempesta – che quando evocato spira ovunque, sfonda le porte delle menti, vi penetra e le possiede appunto. Wotan spesso dorme nella sua caverna nei boschi del Nord. Ma a volte si risveglia. Il febbraio di tre anni fa è una di quelle volte.
Allora mi ero illuso che fosse l’effetto dello shock, che col tempo quella passione triste si sarebbe stemperata per lasciare il posto al ritorno a una più acquietata razionalità o quantomeno all’istinto di conservazione. Ma mi sbagliavo. In questi tre anni Wotan ha continuato a lavorare, possedendo le menti delle leadership occidentali, dei politici e, quel che è peggio, dei principali opinion leader. I cosiddetti intellettuali, che di quel termine hanno solo più il significante – il fatto che lavorano con la mente e le parole – senza più il significato alto che aveva un tempo, quando potevano ancora apparire i custodi di un pensiero critico. Lo vediamo ora, quando ci appare in tutta la sua estensione la dimensione della trahison des clercs, per usare l’espressione che Julien Benda negli anni Trenta riservò agli uomini di penna che si lasciavano possedere dalle passioni tristi del tempo, appunto...