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Cos’è successo all’Europa?
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Nel 1961, Jean-Paul Sartre deplorava lo stato dell’Europa. “Fa acqua da tutte le parti,” scriveva nella prefazione ai Dannati della terra di Frantz Fanon.”Cos’è successo? Semplicemente che eravamo i soggetti della storia e adesso ne siamo gli oggetti.” Indubbiamente era troppo pessimista. Nei cinquant’anni trascorsi da quel lamento, ci sono stati progressi molto significativi, inclusi l’Unione Europea, la riunificazione della Germania, l’estensione della democrazia all’Europa dell’Est, il consolidamento e il miglioramento dei servizi sanitari nazionali e della previdenza sociale, i diritti umani iscritti nelle leggi e fatti rispettare. Tutto ciò è avvenuto di pari passo con un’economia europea in rapida espansione che ha ricostruito e ampliato le basi industriali e le infrastrutture devastate durante la seconda guerra mondiale.
Forse Sartre si riferiva a un contrasto di lungo periodo. Nei secoli precedenti, gran parte della storia del mondo era davvero fatta in Europa e il mondo ne era insieme ammirato e timoroso. Nella seconda metà del Novecento la situazione cambiò rapidamente. Da studente, quando sono arrivato a Cambridge dall’India nei primi anni Cinquanta, ricordo di aver chiesto se all’università c’erano conferenze sulla storia economica dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Ci sono, mi venne risposto, per una pubblicazione intitolata “Expansion of Europe”. Oggi questa visione europea del mondo sembrerebbe alquanto arcaica non solo perché i grandi imperi europei sono tramontati, ma anche perché l’equilibrio delle forze politiche ed economiche è cambiato radicalmente. L’Europa non sembra più un gigante.
Non c’è niente di speciale – o di deplorevole – nel fatto che le diverse regioni cambino ruolo nel corso della storia. È sempre successo. Colpisce tuttavia il pasticcio nel quale l’Europa s’è infilata nell’ultimo decennio. In questo momento si discute molto – e giustamente - di come farà a liberarsi dello scompiglio finanziario, della sofferenza economica e del caos politico. “Cosa fare adesso” è sicuramente una questione importante, ma se si pensa al recente passato “cosa non fare” lo è altrettanto, non solo per la rilevanza degli errori precedenti nel decidere il da farsi in Europa oggi (non che sia facile disfare quanto fatto, non c’è mai una traduzione automatica delle follie passate in correzioni presenti), ma anche perché le lezioni negative possono evitare traversie simili nel resto del mondo.
Cos’è andato storto in Europa negli anni scorsi? Dividerò la mia analisi in tre grandi temi collegati: (1) la sfida dell’unità europea, (2) i requisiti della democrazia, (3) le esigenze di una buona politica economica.
L’unificazione è un vecchio sogno, anche se meno vecchio di quanto alcuni dicono, non risale all’antichità classica. Più che con Goti, Vichinghi, Angli e Sassoni, Alessandro e altri elleni erano interessati a conversare con persiani, battriani, indiani; Giulio Cesare e Marcantonio si identificavano più con gli egizi che con altri europei a nord a ovest di Roma. Ma l’Europa ha conosciuto ondate successive di integrazione politica e culturale – facilitate dalla possente diffusione della Cristianità – e già nel 1464 re Giorgio di Pohebrady in Boemia parlava di unità pan-europea. Altri ne seguirono l’esempio via via e nel Settecento perfino George Washington scrisse al marchese di Lafayette “un giorno, sul modello degli Stati Uniti d’America, nasceranno gli Stati Uniti d’Europa”.
Tuttavia fu il sangue europeo versato in due guerre mondiali a generare un urgente bisogno di unità. Come scrisse W.H. Auden all’inizio del 1939, In the nightmare of the dark/ All the dogs of Europe bark,/ And the living nations wait,/ Each sequestered in its hate. (“Nell’ora dell’incubo atra/Ogni can d’Europa latra/Ogni viva gente aspetta/Nel suo odio tutta stretta”, da “In memoria di W.B. Yeats”, Poemi d’occasione, trad. di Nicola Gardini)
Gli eventi stavano per confermare le sue premonizioni peggiori. Nel dopoguerra molti intellettuali europei avevano una terribile paura che si ripetessero, un contesto da tener presente per capire che il movimento di unificazione è iniziato come una crociata per l’unità politica, non finanziaria, non per una moneta comune. Il Movimento federalista europeo è nato dal desiderio di unità politica – di prevenire altre guerre auto-distruttive – com’è chiaro dai contenuti delle dichiarazioni di Ventotene nel 1941 e di Milano nel 1943. Non c’era alcuna ostilità nei confronti di un’integrazione economica e neppure di un’unione finanziaria. Le priorità tuttavia non erano le banche né la moneta, ma la pace, la buona volontà e una graduale integrazione politica. Il fatto che l’unificazione politica abbia accumulato un notevole ritardo sull’incorporazione finanziaria è uno sviluppo successivo e i problemi causati da questa sequenza deliberata fanno capire, come dirò, la natura complessa e l’ampiezza dell’attuale crisi economica europea.
C’è un punto particolarmente degno di nota in questo contesto storico, che viene spesso trascurato. Nella zona euro, i problemi causati dalla precedenza data all’integrazione e all’unione monetaria, senza il sostegno di una più stretta unione politica e fiscale, vanno oltre quelli economici: riguardano l’ostilità sociale e il rapporto tra i popoli dei vari paesi europei. In molte forme diverse, la rabbia e la frustrazione hanno generato tensioni e rafforzato quei politici estremisti che l’Europa, era lecito aspettarsi, si era lasciata alle spalle.
Non devono sorprendere i problemi di bilancia dei pagamenti e altri simili nei paesi come Grecia, Spagna o Portogallo, dati i limiti inflessibili posti all’aggiustamento del tasso di cambio e alle politiche monetarie. Il conseguente scenario di crisi e salvataggi che esigono tagli draconiani ai servizi pubblici ha anche esasperato gli animi da entrambe le parti. Ha fortemente aggravato il disamore tra le nazioni europee come dimostra , sotto forme diverse, la retorica politica di questi giorni da nord a sud, e il disprezzo con i quale sono additati “i greci pigri” o “i tedeschi del Reich”.
L’analogia spesso invocata con i sacrifici dei tedeschi per riunificare la Germania dell’est e dell’ovest è ingannevole e annebbia spesso il pensiero di certi europei. Inganna in parte perché, tra le nazioni europee, il senso di unità nazionale che ispirava quei sacrifici oggi non esiste, e anche perché in quel notevole sforzo unitario, i sacrifici ricadevano soprattutto sulla ricca Germania dell’ovest e non su quella più povera, mentre in Europa vengono richiesti a paesi come la Grecia e la Spagna.
I costi delle politiche economiche fallite vanno ben oltre le statistiche, pur importanti, della disoccupazione, del reddito reale e della povertà. L’idea stessa di unione, di un senso di appartenenza europea, è messa in pericolo da quanto succede in campo economico. I fautori dell’“unità monetaria europea” hanno in effetti spinto gran parte dell’Europa verso la disunione. Non intendo dire che si rischia di tornare al 1939, ma i “cani d’Europa” che abbaiano nelle loro basi regionali di risentimento e di disprezzo, se non di odio, recano un danno immenso alla causa europea dell’amicizia e dell’unità.
I fondatori del Movimento federalista volevano “un’Europa democratica unita”. Quella uscita dalla seconda guerra mondiale aveva imparato per amara esperienza lezioni che non avrebbe dimenticato, innanzitutto che democrazia significa dare a ogni persona non solo un voto, ma anche una voce. La democrazia nella forma di elezioni periodiche è ben radicata nelle costituzioni, e l’impegno ad avere una discussione pubblica preliminare prima delle grandi decisioni fa parte anch’esso dei valori europei. Walter Bagehot definiva la democrazia un “governo attraverso la discussione”, un’analisi politica che John Stuart Mill aveva contribuito molto a chiarire e a difendere, saldamente condivisa e seguita dai leader visionari che si misero in cerca di un’unità europea.
I leader finanziari e le potenze economiche europee hanno sicuramente deciso provvedimenti sbagliati o nel momento sbagliato, ma anche se fossero stati corretti e tempestivi resterebbe la questione del processo democratico. Per esempio una cosa fondamentale come i servizi pubblici, pilastri essenziali dello stato previdenziale europeo, non può essere lasciata al giudizio unilaterale di esperti finanziari (per non parlare delle agenzie di rating spesso poco accurate) senza un ragionamento pubblico e il consenso delle popolazioni coinvolte. È certamente vero che le istituzioni finanziarie contano per il successo o il fallimento delle economie, ma la loro posizione può avere una legittimità solo attraverso un processo pubblico di discussione e di persuasione, con argomenti, contro-argomenti e contro-contro-argomenti.
Se la democrazia è uno dei grandi impegni presi dall’Europa negli anni Quaranta, l’altro è stato la sicurezza sociale, la necessità di evitare intense privazioni. Anche se tagli feroci alle fondamenta dei sistemi europei di giustizia sociale fossero inevitabili (non credo, ma mettiamo pure che lo siano) è necessario convincerne la popolazione, invece di tagliare per decreto. Eppure sono stati spesso imposti a dispetto dell’opinione pubblica.
Legittimità democratica a parte, è anche una questione di senso pratico, di pratica “dell’arte del possibile” (come la politica dovrebbe essere). Si può negare ai cittadini una voce, ma in presenza di istituzioni democratiche, non si può negare loro un voto in elezioni periodiche. Non è una sorpresa, ma non si può zittire la cittadinanza esclusa dal processo di decisione: un’elezione dopo l’altra, i governi che hanno applicato i dettami delle superpotenze finanziarie sono stati indeboliti e a volte rimossi sommariamente. Un diritto di voto senza una voce efficace ha reso anche molto difficile trovare soluzioni concrete che prestassero la giusta attenzione a priorità assennate e a un do ut des accettabile. Il pubblico ragionare è cruciale non solo per la legittimità democratica, ma anche per una migliore epistemologia che tenga conto di prospettive divergenti. È anche essenziale per far emergere particolari esigenze e limitare le proteste attraverso un ragionare pubblico che esamini le priorità nell’aggregato di esigenze molto diverse tra loro (un processo di do ut des che abbiamo imparato ad apprezzare da molti analisti, da Adam Smith e Condorcet nel Settecento fino a Frank Knight e James Buchanan ai tempi nostri).
In materia di buona politica economica, due questioni si presentano subito: (1) la viabilità della moneta comune e (2) la politica di austerità – scelta o imposta – nei paesi in difficoltà finanziarie. Sul primo punto, l’attenzione si è solitamente concentrata sulla sopravvivenza a breve dell’euro fornendo liquidità in un modo o nell’altro ai paesi nei guai. Ora si parla di salvataggi alternativi, di nuovi pacchetti di bailout con l’aiuto di paesi finanziariamente più robusti, di emissione di eurobond garantiti o dell’acquisto di buoni del Tesoro ad alto tasso di interesse greci, spagnoli o di altri paesi in da parte della Germania (che riceverebbe interessi cospicui pur senza correre grandi rischi finché l’euro sopravvive nella forma attuale). Molte di queste proposte meritano di essere considerate e potrebbero anche essere utili, ma nessuna affronta - o intende affrontare – il problema della viabilità a lungo termine del cambio inflessibile della moneta comune, anche quando paesi la cui produttività cresce meno – come la Grecia, la Spagna e l’Italia – restano indietro rispetto al resto della zona euro in termini di competitività commerciale. La Grecia, per esempio, potrebbe scoprire di aver sempre meno da vendere al cambio fisso dell’euro, a meno di ottenere l’equivalente di un aggiustamento del cambio con tagli brutali degli stipendi - anche pagati in moneta nazionale - su una scala altrimenti non necessaria.
Senza poter variare il tasso di cambio, la differenza di competitività si può recuperare riducendo decisamente i redditi e quindi il tenore di vita. Il che infliggerebbe grandi sofferenze e incontrerebbe una resistenza comprensibile. La incontrerebbe anche l’altra “soluzione”: un aumento dell’emigrazione (per esempio dalla Grecia alla Germania). Una moneta unica in una federazione unita politicamente come gli Stati Uniti d’America sopravvive con mezzi (quali trasferimenti significativi e movimenti sostanziali della popolazione) di cui l’Europa politicamente disunita non dispone. Prima o poi andrà affrontata la spinosa questione della viabilità a lungo termine dell’euro, anche se i piani di salvataggio riescono a evitarne il collasso a breve.
Passiamo al secondo punto, ai tagli alla spesa pubblica che dovrebbero risolvere il problema immediato dei deficit eccessivi e degli enormi indebitamenti. È difficile vedere nell’austerità una soluzione economica assennata all’attuale disagio europeo e potrebbe anche non ridurre il deficit.
Malgrado la retorica, l’insieme di interventi richiesti dalla leadership finanziaria europea è stato duramente anti-crescita. Nella zona euro, il PIL è calato nell’ultimo trimestre del 2011 e la crescita zero del primo trimestre del 2012 è stata addirittura accolta come una “buona notizia”. Se si esclude la Germania, il risultato diventa una brutta notizia: una produzione in calo nel resto della zona euro. Il calo è proseguito in Spagna, Portogallo e Italia. In Grecia la caduta libera del 2011 (-6%) è rallentata un po’, ma dal 2008 a oggi l’economia si è ridotta di un quarto. I cittadini e le economie hanno patito e i deficit sono rimasti invariati.
La storia dimostra in abbondanza che il mezzo più efficace per ridurre il deficit è di resistere alla recessione e di abbinare alla riduzione una rapida crescita economica. Enormi deficit sono scomparsi negli anni della crescita post-bellica. È accaduta una cosa analoga negli otto anni della presidenza Clinton. Anche la riduzione molto elogiata del deficit della Svezia tra il 1994 e il 1998 è avvenuta durante un periodo di rapida crescita del PIL. Oggi la situazione è ben diversa: molti dei paesi ai quali si chiede di ridurre il deficit hanno una crescita zero o negativa e sono sottoposti a una disciplina di austerità che si aggiunge a una recessione.
Dire che durante una recessione economica le misure di austerità sono contro-produttive è spesso considerato, a giusto titolo, come una “critica keynesiana”. Keynes sostenne – in modo convincente – che tagliare la spesa pubblica quando, per scarsità della domanda, un’economia ha una capacità produttiva inutilizzata, avrebbe l’effetto di rallentare ancora di più l’economia e di accrescere, invece di ridurre, l’occupazione. A Keynes va riconosciuto il merito di aver chiarito questo punto, elementare, ai politici di qualunque tendenza e di aver fornito un abbozzo – nulla di più, direi - di teoria per spiegare a grandi linee le interdipendenze delle varie attività economiche (sottolineando in particolare che la spesa di una persona è il reddito di un’altra). Sono sicuramente a favore di questo argomento e apprezzo anche il lavoro fatto da Paul Krugman, in particolare il suo eccellente contributo allo sviluppo e alla diffusione di tale prospettiva per mettere in discussione le misure di austerità massiccia prese in Europa.
La prospettiva keynesiana è tuttora importante, eppure le misure di austerità sono inadeguate non solo per motivi keynesiani. Dobbiamo andare ben oltre Keynes e chiederci a che cosa serve la spesa pubblica, a parte rafforzare la domanda qualunque contenuto essa abbia. Guarda caso, la resistenza europea ai tagli spietati dei servizi pubblici e a una austerità indiscriminata non si basa soltanto o principalmente su un ragionamento keynesiano. In merito ai servizi pubblici, ricorre a un argomento costruttivo di grande interesse politico ed economico: quello della giustizia sociale. Tali servizi devono ridurre l’ingiustizia invece di aumentarla (è questa la forma che una teoria della giustizia deve inevitabilmente prendere, come ho sostenuto nel mio libro L’idea di giustizia). Hanno valore per quello che forniscono alla popolazione, sopratutto a quella più vulnerabile, un valore per il quale l’Europa ha combattuto. I tagli brutali insidiano l’impegno sociale preso alla fine della seconda guerra mondiale, che ha portato alla nascita dello stato previdenziale e dei servizi sanitari nazionali in un periodo di veloci cambiamenti. È stato un grande esempio di responsabilità sociale che il resto del mondo avrebbe poi seguito, dall’Asia orientale all’America Latina.
Per capire perché Keynes è una guida inadeguata alla soluzione della crisi economica europea, dobbiamo chiederci “quale visione di una buona società aveva l’economista Keynes?” Com’è risaputo, disse - di nuovo con una certa accuratezza - che è bene pagare lavoratori per scavare buche e poi per riempirle perché ciò aumenta la domanda e combatte la recessione. D’accordo, ma Keynes aveva ben poco da dire sugli impegni sociali che uno stato dovrebbe assumersi, sullo scopo della spesa pubblica, oltre a quello di intervenire per rafforzare la domanda del mercato. Sorvolò sulla disuguaglianza economica, fu di una straordinaria reticenza sull’orrore della povertà e delle privazioni, era poco interessato alle esternalità e all’ambiente, e trascurò del tutto il tema sul quale si concentrò invece il suo avversario e rivale A. C. Pigou: “L’economia del benessere”, titolo del suo libro più famoso e di sicuro più profondo.
È stato Pigou, che viene ritenuto di destra, a dare il via alla misura della disuguaglianza economica, ad analizzare a lungo la natura e le cause della povertà, a scrivere a lungo sulle esternalità, sul degrado ambientale e sulla necessità per le economie statali di tentare di rimediare agli errori compiuti dall’economia di mercato nell’allocazione delle risorse.
La messa in discussione delle attuali politiche finanziarie in Europa nasce da ragioni economiche che vanno ben oltre Keynes (mentre ne incorporano alcune idee), nasce dalle ragioni politiche e sociali alle quali accennavo. Questo scetticismo non intende affatto mettere in dubbio la necessità di ridurre l’aggravio del debito pubblico in tempi appropriati. Una buona economia però riguarda non solo l’obiettivo da raggiungere ma anche che cosa funziona, dove e quando.
Se a questo argomento economico aggiungiamo che da tempo l’Europa cerca una forma di giustizia sociale e - preoccupazione più immediata – il rischio fatto incorrere al senso di solidarietà europea, diventa ovvio che i recenti interventi finanziari sono stati disastrosi. Non vuol dire che l’impegno per la giustizia sociale prevale sempre e comunque, ma che non può essere spazzato via dalle decisioni unilaterali di leader finanziari, qualunque posizione eccelsa o modesta occupino nel proprio limitato ambiente. Resta sempre il bisogno di esaminare razionalmente ciò che un paese può e non può permettersi (tenuto conto di tutti i fattori, comprese le variazioni nella composizione per fasce di età della popolazione), una cosa assai diversa dal controllare ciò che un paese può permettersi con una gestione finanziaria ed economica inefficiente – come quella subita dall’Europa negli ultimi anni - e con idee confuse sul tasso di cambio, sulle esigenze del mercato e sulla competitività economica.
Il principio guida dovrebbe invece essere quello specificato con molta chiarezza da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni. Una buona economia politica, diceva, deve avere “due obiettivi distinti”: il primo, procurare un reddito o una sussistenza abbondante alla popolazione, o più esattamente renderla in grado di procurarsi da sé tale reddito o sussistenza; il secondo, fornire allo stato o alla comunità (commonwealth) un reddito sufficiente per i servizi pubblici.”
Un punto finale, e importante, è che una considerazione seria dei tipi di riforma necessari in Europa è stato ostacolata - invece di aiutata - da una confusione crescente tra (1) la riforma di cattivi sistemi amministrativi e (2) l’austerità intesa come tagli spietati ai servizi pubblici e allo stato sociale. All’Europa servono riforme di svariati tipi, arginare l’evasione fiscale e il favoritismo praticato dai funzionari pubblici nell’esercitare il potere dato loro dalla società, regolamentare le banche che tendono a operare in maniera irresponsabile (o peggio ancora, a perseguire senza intralci il guadagno, soprattutto sotto forma di profitti a breve termine), modificare accordi economicamente insostenibili sull’età pensionabile. Per colpa di un’analisi confusa, i requisiti della presunta disciplina fiscale hanno amalgamato riforme e austerità. Un esame attento della domanda di giustizia sociale avrebbe invece fatto considerare in maniera ben diversa le riforme indispensabili e i tagli indiscriminati ai servizi pubblici. Anche se un pensiero economico rozzo ha eliminato la distinzione, potrebbero ristabilirla discussioni pubbliche adeguate, cioè un “governo attraverso la discussione”.
L’Europa ha avuto un’importanza straordinaria per il mondo che da essa ha imparato moltissimo. Può averla ancora, se mette in ordine la propria casa economicamente, politicamente e socialmente. È indispensabile e non soltanto per l’Europa.
Amartya Sen
Fonte: IlSole24Ore.it
(Traduzione di Sylvie Coyaud)