Come gli algoritmi trasformano il mondo del lavoro

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Come vi sentireste a lavorare per un algoritmo? Alcuni di noi lo fanno già, almeno in parte. Oggi i giornalisti non si occupano solo di fact-checking ma anche di “ottimizzazione per i motori di ricerca”, ovvero di rendere visibili le storie sulla vostra App preferita.

Inoltre le aziende utilizzano sempre più spesso l’analisi dei dati per decidere di assunzioni e licenziamento. Il che suggerisce che, se si vuole davvero fare carriera, non bisogna cercare di impressionare il proprio manager, ma piuttosto lo strumento di misurazione delle prestazioni.

Per un numero crescente di lavoratori questa è già una realtà. Si stima che nell’UE vi siano almeno 28 milioni di lavoratori di piattaforma, formalmente autonomi ma controllati da un software algoritmico. Tra questi ci sono i tassisti, che una volta lavoravano per un’azienda ma ora fanno capo a un’App, e i corrieri per la consegna di generi alimentari che, allo stesso modo, non hanno un manager umano, né tantomeno godono di diritti del lavoro che spetterebbero ai lavoratori subordinati.

Molti altri settori lavorativi sono pronti per essere rilevati da Deliveroo o Uber. Non è del tutto irrealistico immaginare che un giorno i giornalisti lavoreranno per i social media e riceveranno micropagamenti per i clic dei lettori, assumendosi anche la responsabilità individuale di azioni legali e altro contro di loro.

Quindi, se pensate che ciò che sta accadendo nella “gigeconomy” non abbia nulla a che fare con voi, vi sbagliate.

Due settimane fa i ministri del lavoro dell’UE hanno trovato un accordo per esprimere una posizione comune sulla Direttiva europea sul lavoro di piattaforma, testo legislativo chiave per il futuro di molti lavoratori e dei loro diritti in Europa. Per questo motivo, si teme che la versione finale sarà considerevolmente annacquata dall’intensa attività di lobbying delle Big tech. Una questione su tutte: combattere sulla “presunzione di subordinazione”, ponendo l’onere della prova sulle piattaforme, che così sarebbero costrette a dimostrare che le persone che utilizzano non sono loro dipendenti, ma collaboratori.

Le piattaforme affermano, infatti, di operare solo come data-base attraverso il quale far incontrare domanda e offerta. Sono in grado di mantenere uno stretto controllo sui loro utenti, pur presentando questi lavoratori come autonomi, senza alcun rapporto di dipendenza formale e, quindi, anche senza le tutele di salute e sicurezza, i diritti a vari tipi di ferie retribuite e i diritti ai contributi dei datori di lavoro per le pensioni e le assicurazioni sociali.

Si prenda ad esempio il settore del food delivery. Negli ultimi due anni, ho condotto uno studio (clicca qui per leggerlo) sulla condizione di lavoro dei corrieri della consegna di cibo in Irlanda e in Italia, dove ho individuato criticità non solo riguardanti le forme di sfruttamento selvaggio ma anche l’inefficienza algoritmica...

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