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Cocco, cocco bello… ma anche giusto?
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Foto: Unsplash.com
Di brutte notizie non ne abbiamo così tanto bisogno, eppure non ne mancano mai. E in periodi in cui le nostre menti sono occupate in mille preoccupazioni, a volte non abbiamo il tempo di fare caso al dolore degli altri, alle disuguaglianze, alle ingiustizie che ci sfiorano da vicino o da lontano e che coinvolgono gli altri esseri che abitano il Pianeta insieme a noi.
Non è possibile farsi carico di ciascun travaglio, e non tutti e non sempre possiamo fare qualcosa di sostanziale come prendere un aereo e andare ad aiutare qualcuno, aprire le porte di casa, inviare denaro. A volte, nello sciabordio degli impegni che si vorrebbero prendere ma non si riescono ad assumere, sono sufficienti piccole azioni dalle grandi ricadute: leggere, informarsi, diffondere quello che si scopre, fare scelte come consumatori che spezzino la catena di sofferenza che spesso, senza nemmeno volerlo o saperlo, noi stessi teniamo salda intorno al collo di chi ne subisce le conseguenze.
Un esempio particolarmente calzante è la schiavitù delle scimmie legata all’industria del cocco. Una di quelle questioni che, a meno che non se ne monitorino in maniera regolare e costante i protagonisti per ragioni molto specifiche, non giungono alla ribalta se non per tramite di grandi testimonial che prendono a cuore una determinata causa. Questa se l’è coccolata l’attore inglese Peter Egan, volto noto della serie televisiva Downton Abbey, che si è speso per diffondere i risultati di una tremenda indagine curata dalla sezione asiatica di PETA, acronimo che sta per “Persone per il Trattamento Etico degli Animali”, la più grande organizzazione a livello mondiale (oltre 6,5 milioni di soci e supporters) che si batte da anni per i diritti di chi non ha voce.
Un minuto e 40 secondi di video per raccontare lo strazio di una vita: rubate quando ancora cucciole al loro habitat naturale nelle foreste thailandesi, le scimmie perdono le loro caratteristiche di animali sociali, curiosi e intelligenti e diventano macchine robotiche per la raccolta delle noci di cocco per l’industria agricola, destinato all’esportazione e alla produzione di prodotti distribuiti a livello internazionale come yogurt, acqua, scaglie, gelati, torte, materie prime per i ristoranti o le aziende. È improbabile che un prodotto contenente cocco thailandese non sia stato raccolto in questo modo, da animali tenuti in gabbia sotto la pioggia, incatenati con catene così corte da impedire ogni deambulazione e ogni interazione con i proprio simili, così importante – se non fondamentale – per il corretto sviluppo di questa specie. Che infatti non avviene, anzi: molte di queste scimmie, private degli stimoli mentali e del contatto, impazziscono, mettendo in atto comportamenti anomali come crisi isteriche, infiniti giri in tondo su se stesse e intorno ai pali a cui sono legate, aggressioni verso gli addestratori che portano alla conseguente rimozione dei canini.
Nel Regno Unito l’inchiesta ha destato lo scalpore che dovrebbe destare ovunque, tanto da spingere oltre 15 mila negozi del Paese a non acquistare più prodotti di cocco provenienti dal lavoro di scimmie thailandesi. Una scelta coraggiosa, che però mette anche di fronte alla grave difficoltà di reperire prodotti sostitutivi, dato che la maggior parte del cocco thailandese viene raccolto attraverso lo sfruttamento dei primati. Una scelta che dovrebbe auspicabilmente essere compiuta anche dai maggiori rivenditori e distributori mondiali perché, si sa, è la domanda che fa l’offerta. E lasciare sullo scaffale un prodotto nato dallo sfruttamento e dal dolore è un gesto etico e impattante più di quanto non si creda. Che certo non cambierà il mondo repentinamente, ma che darà al produttore la cifra di quanto il suo prodotto sia poco gradito. E magari segnalerà contemporaneamente l’interesse per un’alternativa derivante invece da un commercio equo e sostenibile, che garantisce in tutta la filiera della produzione diritti e qualità che altre filiere non riescono a dimostrare, facendo della trasparenza e della giustizia pilastri imprescindibili per chi sceglie di soddisfare i propri bisogni – in questo caso del palato – senza alimentare la sofferenza di chi quei prodotti li fa arrivare fino a noi.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.