Cina: repressione contro Uighuri e consenso antigiapponese

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La Cina usa "metodi da guerriglia per reprimere espressioni religiose e istanze democratiche degli Uighuri, un'etnia musulmana dello Xinjiang: è la denuncia di Human Rights Watch contenuta in un dossier presentato oggi dall'organizzazione per i diritti umani. Il dossier si basa su documenti ufficiali del Partito comunista cinese e su denunce ed atti stilati dalla pubblica sicurezza della regione, che fino ad ora erano rimasti segreti. "La campagna mondiale contro il terrorismo ha dato a Pechino la scusa perfetta per reprimere nel sangue qualunque forma di espressione libera nello Xinjiang. Altre etnie cinesi sono riuscite a strappare al governo centrale una qualche forma di autonomia, ma gli Uighuri, come i Tibetani, hanno capito che la loro religione viene usata come strumento di controllo" - nota Brad Adams, direttore Hrw per l'Asia. Wang Lequan, segretario del Partito comunista dello Xinjiang, dice apertamente che "la sfida maggiore per l'autorità è quella di gestire la religione, e fare in modo che questa etnia la usi per riunirsi alla madre patria e costruire l'unità nazionale". L'Associazione per i popoli minacciati (APM) lunedì ha rivolto all'Alto Commissario ONU per i diritti umani Louise Arbour la protesta contro l'arresto dell'attivista per i diritti umani Dolkun Isa, Uiguro che vive in Germania.

Hrw denuncia anche il modo sommario con cui lo stato sigmatizza come "separatismo" e come crimine contro la sicurezza del paese ogni critica alla repressione ed ogni tentativo di esprimere la libertà religiosa. Coloro che cercano di praticare la religione al di fuori dei limiti dettati dal governo sono arrestati, torturati e a volte condannati a morte. Le punizioni peggiori sono riservate per coloro che sono accusati di "attività separatiste" che le autorità definiscono "terrorismo". Metà di coloro che si trovano nei lager dello Xinjiang sono stati arrestati ed internati senza processo. Gli Uighuri sono una minoranza etnica di lingua turca che conta circa 8 milioni di persone, in prevalenza stanziate nello Xinjiang - riporta AsiaNews.

E nel Zhejiang oltre 30 mila persone che chiedevano lo spostamento di 13 industrie chimiche colpevoli di aver distrutto i loro raccolti si sono scontrati con la polizia che ha represso con la violenza una protesta popolare contro l'alto tasso di inquinamento nella zona -segnala sempre AsiaNews. Gli abitanti hanno dichiarato che dal 2001, anno di attivazione delle 13 industrie, l'inquinamento è aumentato così tanto che il terreno è diventato arido e le verdure non commestibili. "Un rappresentante ufficiale" - sottolinea il residente - "ha persino detto che le industrie rimarranno qui anche se tutti gli abitanti del villaggio dovessero morire". Lo stesso testimone spiega anche perché i dimostranti sono tutti anziani: "I giovani non hanno osato unirsi alla protesta perchè sarebbero stati arrestati subito". La notte scorsa Chen Qixian, portavoce del governo di Dongyang, ha smentito le voci su morti nella rivolta. Secondo fonti ufficiali nell'operazione al villaggio sono stati impegnati 1000 persone tra cui almeno 100 poliziotti. Secondo una fonte anonima riportata da AsiaNews, i media cinesi hanno avuto l'ordine di coprire in modo limitato la notizia delle rivolte nel Zhejiang, per impedire che queste scoraggiassero investimenti stranieri nella provincia. Qui negli ultimi anni sono arrivati ingenti capitali da Hong Kong e Taiwan.

Intanto, secondo analisti cinesi, le violente manifestazioni antigiapponesi verificatesi in Cina lo scorso fine settimana sono avvenute con il tacito consenso del governo - riporta l'agenzia AsiaNews. Tra sabato e domenica violente dimostrazioni anti-giapponesi partite da Pechino si sono estese a macchia d'olio nella provincia meridionale del Guangdong. In un paese controllato come la Cina è difficile pensare che manifestazioni popolari avvengano senza l'approvazione governativa. I manifestanti hanno preso di mira attività commerciali e sedi diplomatiche, protestando contro il "revisionismo" giapponese, che vuole minimizzare "le atrocità" commesse durante l'occupazione della Cina (1931 al 1945). A Pechino, il 9 aprile, 20 mila persone hanno dimostrato contro la sede diplomatica giapponese. La manifestazione è stata la più numerosa, ma di ben altri intendimenti politici, dopo quelle conclusesi con la repressione di piazza Tiananmen nel 1989. Ieri a Tokyo il ministro degli Esteri Nobutaka Machimura ha convocato l'ambasciatore cinese, Wang Yi, chiedendo "scuse e risarcimenti" per i danni subiti dai compatrioti. Le autorità cinesi, infatti, pur invitando alla calma i manifestanti, non hanno vietato i cortei. [GB]

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