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Cina, il ritorno di Confucio
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Quando la censura dei mezzi di comunicazione impediva al popolo cinese di vedere la sedia vuota di Liu Xiaobo durante la cerimonia di assegnazione del premio Nobel per la Pace, il governo della Repubblica Popolare lanciava in grande stile un’iniziativa destinata a portare nel mondo gli ideali cinesi, invece di subire le “ingerenze” occidentali: si tratta del “Premio Confucio per la Pace”. La prima edizione del premio è stata assegnata a Lien Chan, ex vicepresidente di Taiwan e leader onorario del Partito nazionalista, "per avere costruito un ponte di pace tra la Cina continentale e Taiwan".
Al di là delle motivazioni politiche il revival di Confucio rappresenta una svolta culturale di portata quasi epocale. Nella storia della Cina tre sono state le componenti etico – religiose che si sono alternate nei vari periodi dell’impero: confucianesimo, taoismo e buddhismo. Ciascuna di esse ha forgiato la cultura cinese, ma è l’insegnamento del saggio per eccellenza, appunto Kung Fuzi (“maestro Kung” questo è il nome cinese del latinizzato Confucius), vissuto tra il VI e il V secolo a.C. a innervare il tessuto tradizionale, nonostante le tentate “rivoluzioni culturali” di epoca nazionalista e maoista.
Se durante il Novecento la proposta classica confuciana era stata additata come un retaggio reazionario del passato, ora in piazza Tian an men è stata collocata una statua bronzea (8 m di altezza) di Confucio stesso che ormai fa ombra alla gigantografia del Grande Timoniere. È stato pure realizzato un film celebrativo del regista Hu Mei (che ha già girato serie televisive nazional-popolari di notevole successo), intitolato appunto Confucius e giunto nelle sale cinematografiche di mezzo mondo. Si tratta di una rivoluzione politica e “teologica” che chiude un’epoca e suggerisce il poderoso tentativo della dirigenza cinese di unificare il passato imperiale con la trasformazione socialista, proprio nel centenario della caduta dell’ultimo imperatore.
Il nome del maestro è diffuso ovunque non solo per una fama storicamente sedimentata ma anche per la presenza capillare in tutto il mondo degli “istituti Confucio”, istituzioni sorte per valorizzare la cultura cinese. Ma l’esplosione di interesse per Confucio ha coinciso con la salita al potere dell’attuale presidente Hu Jintao, che sintetizza nell’ideale della “società armoniosa socialista” il superamento definitivo del comunismo maoista, in direzione di un confucianesimo post-moderno dove comunque lo Stato resta il perno indiscusso. Va ricordato che Confucio propone un’etica, non una religione, un modo di vivere bene nella società senza porsi troppi problemi spirituali, una visione dell’uomo fondata sul “senso di umanità” e su un formalistico rispetto dei “riti” che non è altro che l’armonica accettazione dei rapporti gerarchici, da quello tra padre e genitore fino a quello tra suddito e imperatore.
Hu reinterpreta questa lezione sottolineando la necessità di un equilibrio tra le classi (altro che lotta di classe e egualitarismo marxista!), e facendo molta attenzione a una crescita globale anche per le fasce più povere. Tutto però deve essere pianificato e regolato da un autoritarismo ferreo che unisce l’intransigenza di stampo leninista con il dispotismo benevolo e illuminato di un imperatore che gestisce il potere per “mandato celeste”. Il presidente ha ribadito questi concetti nel corso della sua recente visita negli Stati Uniti, parlando pure in una lunghissima intervista al Washington post di “democrazia socialista”.
Oggi l’ideale confuciano di una società armonica passa attraverso un nazionalismo basato sull’espansione economica e attraverso il capitalismo di stato. Se negli scaffali delle librerie vanno di moda i grandi classici dell’economia occidentale a cominciare dalla Ricchezza delle nazioni di Adam Smith (negli anni ‘80 e ‘90 quando la nomenclatura cinese cercava nuovi modelli economici si lessero Keynes, Hayek e Friedman) per capire la mentalità sottostante a questa inarrestabile espansione occorre immergersi nelle radici della cultura cinese.
Tuttavia il revival confuciano tralascia molti insegnamenti del maestro: dal rispetto per la persona alla necessità che chi governa debba essere un esempio di umanità e di moralità.
Ma c’è un livello ulteriore che investe un regime che, come tutti i totalitarismi, è fondato sulla negazione della verità. In un celebre passaggio dei Dialoghi, interrogato su quanto dovrebbe fare per prima cosa un sovrano che volesse governare con saggezza, Confucio dice: “Quando non sa di cosa sta parlando, un uomo di valore preferisce tacere. Se i nomi non sono corretti, non si possono fare discorsi coerenti. Se il linguaggio è incoerente, gli affari di governo non si possono gestire… Ecco perché l’uomo di valore usa soltanto nomi che implicano discorsi coerenti e parla soltanto di cose che può mettere in pratica. Ecco perché l’uomo di valore è prudente in quello che dice”.
Occorre “rettificare i nomi”, cioè bisogna adeguare per quanto possibile le parole alla realtà, il linguaggio alla realtà concreta, occorre superare la propaganda per fare un discorso di verità. In questo caso il regime non segue l’insegnamento di Confucio.