Cina: il Celeste Impero della propaganda globale

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La censura nell’odierno Celeste Impero è a volte politically correct. Nelle direttive ai mezzi di informazione diramate dal Dipartimento della propaganda (e divulgate su alcuni siti internet per vie legali o più spesso per vie traverse dai dissidenti che pagano anche con il carcere il desiderio di verità) si vieta di chiamare le persone con disabilità “un sordo”, “un cieco”, “un pazzo” ma si invita a utilizzare termini come “persona con disabilità” oppure “persona con problemi mentali”. Chi è affetto da Sindrome di Down non può essere assolutamente definito “mongoloide”. Negli articoli di giornale di cronaca nera e giudiziaria non si possono dare le generalità dei minori oppure di donne violentate. Occorre rispetto per le religioni, ponendo attenzione nel distinguere “arabi” da “musulmani” evitando semplificazioni come quella di “integralismo islamico”. Potremmo imparare anche noi da questi suggerimenti.

Peccato che in queste veline si incontra per esempio la ferrea censura alle attività dei candidati indipendenti alle elezioni locali perché “sono un problema politico manipolato dalle forze internazionali anticinesi”. Si vieta di nominare il blogger Xia Shang, ma si impone di allegare a tutti i siti informativi un articolo patriottico del professor Xie Chuntao, mentre si ordina di rimuovere immediatamente la “Lettera aperta al partito” di Zhao Shilin. Durante le celebrazioni per il novantesimo anniversario della fondazione del PCC i media non potranno criticare il film – kolossal “Beginning of great revival”, una costosissima opera celebrativa che ha avuto scarso successo ai 6.000 botteghini cinesi. E infine relativamente alla sciagura ferroviaria del treno super veloce del 23 luglio scorso, che causò 40 morti e 200 feriti, si impone ai giornalisti di non fare interviste, di non indagare le cause dell’incidente, di non commentare, di attenersi alle notizie ufficiali, di non dare il numero delle vittime, di esaltare episodi di solidarietà. Insomma di essere marionette o pappagalli. In questo elenco di direttive si potrebbe continuare all’infinito.

Da sempre ogni Stato autoritario pone grandissima attenzione all’attività di censura e di propaganda. Ma la Cina popolare può essere considerata un caso a sé, vista la pervasività del controllo e la sua applicazione capillare alla rete internet. Va sottolineato come la “nuova” Cina, soprattutto dopo i fatti di Tiananmem del 1989, non solo non ha aumentato la libertà di espressione ma ha moltiplicato l’apparato di propaganda: tramontato qualsiasi valore comunista, svanito qualsiasi tipo di sogno maoista, occorreva trovare un nuovo cemento ideologico per ridare legittimità allo Stato e al Partito. Cominciò così una poderosa opera di propaganda basata essenzialmente sul nazionalismo economico e quindi politico-culturale: bisognava instillare nelle masse l’orgoglio cinese. La censura quindi è soltanto un aspetto di una propaganda tendente a creare idee e mentalità piuttosto che a reprimerle, pur ovviamente negando ogni tipo di critica. Si è imposto così una sorta di “sogno cinese”, per certi versi sovrapponibile al “sogno americano”.

Il Dipartimento centrale di propaganda del PCC è stato in epoca maoista un organismo dai poteri illimitati, un regno oscuro senza regole, uno strumento per le campagne politiche: oggi mantiene queste caratteristiche, accentuando se si vuole il suo potere di guida dell’intera società. Per questo i suoi responsabili fanno parte delle sfere più alte della burocrazia comunista pur non comparendo nella gerarchia ufficiale e agendo spesso e volentieri nell’ombra. Il Dipartimento sovraintende il Sistema di propaganda e di educazione che si esplica su tre livelli: la cultura ufficiale di Stato, l’educazione, lo sport, la scienza e la tecnologia, la salute e il settore dei media; tutte le organizzazioni di massa, da quelle dei lavoratori a quelle degli artisti o degli intellettuali; tutta la rete di propaganda ad ogni livello. Il Dipartimento si suddivide in due uffici rispettivamente riguardanti l’interno e l’estero. Impossibile delineare le prerogative di questo organismo. Ci sono le direttive e i dispacci precisi di cui abbiamo dato un esempio in precedenza: sono indicazioni ai media su come trattare determinati argomenti, sulle parole da utilizzare, sui termini vietati, sull’esaltazione o sulla censura di articoli, opere, persone… C’è poi una propaganda indiretta fondata su incentivi, premi, minacce volti a accreditare positivamente chi si impegna nella “giusta” direzione, siano essi singoli, associazioni o aziende, e a sanzionare o addirittura “rieducare” (termine eufemistico che significa finire a lavorare forzatamente in campagna e essere rinchiusi nei famigerati laogai) quanti agiscono controcorrente.

Come facilmente intuibile, internet è il nuovo terreno privilegiato per imporre la verità di regime. È l’Ufficio per la propaganda estera a controllare la rete, a creare i siti informativi concorrenti delle grandi agenzie internazionali, a monitorare le edizioni online dei quotidiani, a modellare giornalisti compiacenti, ad arruolare un esercito di cyber censori, esperti e formatissimi, e legioni di volontari delatori pronti a denunciare le violazioni commesse in Rete. Si parla di circa 30 mila funzionari e di un imprecisato numero di commentatori (pagati per inondare i siti internet di commenti positivi o aderenti alla linea del regime) che rappresentano la spina dorsale della nuova Cina.

Internet dunque possiede una duplicità di fondo. È l’unica via per sentire la voce della dissidenza che, nonostante il ferreo e tecnologico controllo, riesce a trovare un sentiero stretto per rimbalzare come eco lontana fino a noi. Ma è anche l’arma più formidabile per la guida di 400 milioni di internauti cinesi, un universo in espansione che fa il paio con la crescita economica. Soltanto la libertà della Rete può essere l’alternativa alla propaganda globale.

Piergiorgio Cattani

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