Cile, morte e risurrezione di una nazione

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Non è un personaggio qualunque Rodrigo Rivas. E' dovuto fuggire da Santiago del Cile nel lontano 1973 con una taglia sulla testa, mentre gli aerei militari di Pinochet bombardavano la Moneda, il palazzo presidenziale dove Salvador Allende si era rifugiato con i suoi fedelissimi. Finiva così il primo governo socialista latinoamericano salito al potere grazie ad una vittoria elettorale e non ad una insurrezione armata. Allora ventenne, Rodrigo Rivas era segretario del Partito socialista a Santiago e rappresentante degli studenti socialisti. Quel giorno era in cammino verso il palazzo del Parlamento quando lo vide in fiamme e capì che se voleva sopravvivere doveva fuggire: si rifugiò da amici e qualche tempo dopo, camuffato con baffi posticci, riuscì ad uscire furtivamente dal Cile.

Una tempra, quella di Rivas, che mi ha riportato indietro nel tempo, quando ho intervistato alcuni attivisti che nella ex Germania dell'Est lottavano per un socialismo democratico, una terza via tra il socialismo reale sovietico e il sistema del libero mercato. Tutt'altra storia e tutt'altro contesto quello tedesco, ma legato da un cordone ombelicale al Cile: un quartiere della Berlino-Est diventò, infatti, negli anni Settanta punto di ritrovo degli "amici cileni" scampati anche loro al "golpe dei colonnelli" nella speranza di ritrovare nella città tedesco-orientale quello che avevano costruito nella loro patria, il Cile. Ancora oggi c'è il loro bar con lo stesso gestore di allora a Friedrichshain.

Da dove viene questa tempra, signor Rivas, questa tensione morale che mette nelle parole e nei gesti?
Siamo tutti testimoni della storia. Noi latinoamericani, in fin dei conti, siamo latinoamericani per scelta. Non abbiamo espressamente niente di latino. Forse quello che ci unisce è una storia comune. E quello che ci contraddistingue è la nostra ostinata voglia di non perdere la memoria. Come Aureliano Buendìa di "Cent'anni di solitudine" di Gabriel Garcìa Marquez. In attesa dell'esecuzione, l'ennesima dopo averne scampate tante, pensa che la prossima volta andrà meglio.

Un continente di colpi di stato, di dittature feroci e di rivoluzioni.
I latinoamericani pensano che ce la possono fare. Dalla rivoluzione cubana del 1959, quando un contadino vestito di bianco - in Centro America i contadini si vestono sempre di bianco quando sono a festa - chiese la resa senza condizioni della caserma Moncada, in tutti i paesi del continente sudamericano dilagò una sorta di emulazione, a volte direi facilona. Vinceva l'idea che il potere è sulla canna del fucile e la guerriglia la sola possibilità per la rivoluzione.

Il Cile fu però un eccezione nel panorama latinoamericano.
Il Cile ha una tradizione di democrazia dal 1829. Già nel 1870 fu introdotto il diritto di voto alle donne, quando ancora gli stati-nazione in Europa erano agli albori. Per venire a tempi recenti, la nostra concezione di socialismo era quello di raggiungere trasformazioni stabili che coinvolgessero la popolazione, non fomentare guerriglie. La promessa di Allende era quella di una marcia verso il "socialismo nelle libertà", ovvero attraverso gli strumenti della democrazia. I primi provvedimenti in questa direzione furono adottati in realtà dal presidente democristiano Eduardo Frei, ben prima che Allende salisse al potere. Nel 1964 Frei, con l'aiuto degli Stati Uniti, recuperò il 51% delle azioni minerarie delle compagnie straniere e intraprese una riforma agraria che prevedeva l'eliminazione dei latifondi. Per Allende due erano i concetti chiave: democrazia e uguaglianza. Voleva portare il dibattito al di fuori delle sedi istituzionali e dare la possibilità a tutti di esprimere le proprie idee. Per lui uguaglianza significava che tutti potessero mangiare: "I bambini nascono per essere felici" è uno dei suoi detti più famosi.

Prima del colpo di stato, un periodo durissimo dove l'economia cilena veniva messa in ginocchio.
Le esportazioni non furono pagate per tre anni. In Cile non arrivava la tecnologia: gli unici macchinari provenivano dai nostri amici dell'Europa dell'Est, ma dopo due giorni occorreva ripararli. E dopo il boicottaggio esterno arrivò quello interno: 40 giorni di sciopero dei camion e degli autobus. In città non arrivavano le merci e la situazione era più o meno questa: tre ore di fila per avere la benzina, mezza giornata per un pollo e si doveva andare a piedi. Ma successe una cosa inaspettata: in quei giorni il tasso di assenteismo fu il più basso rispetto a quelli registrati quando funzionavano i mezzi pubblici. E alle elezioni del 1973, Allende, eletto tre anni prima con solo 34% dei voti, venne riconfermato con il 45% dei voti. La situazione andava peggio e noi guadagnavamo voti!

Come Allende fu eletto democraticamente, lo stesso Pinochet, arrivato al potere con un colpo di stato, fu sconfitto politicamente.
Anche qui si conferma la tradizione democratica del Cile. Nel 1988, in occasione del referendum indetto dallo stesso Pinochet per prolungare il suo potere, il dittatore uscì sconfitto con una maggioranza dei voti contrari del 7% pur controllando fermamente la popolazione e i seggi elettorali.

E oggi, come vede il suo Paese?
L'eredità di Pinochet non sta solo nelle strutture, ma anche nelle idee che vedo emergere nelle nuove generazioni. Mi riferisco ad esempio alle nuove tendenze razziste verso la Bolivia e il Perù, paesi demograficamente per lo più indigeni. E' un Cile sicuramente diverso da quello degli anni Settanta. Ci sono nuovi attori sulla scena sociale e politica, le donne, ad esempio: l'anno prossimo molto probabilmente diventerà presidente del Cile proprio una donna. Ma anche gli indigeni e i negri: la democrazia passa senza ombra di dubbio attraverso l'inclusione di questi soggetti sociali. Se si leggono i documenti della CIA e del Pentagono, i fattori che vengono giudicati problematici nel continente sudamericano sono proprio i movimenti sociali costituiti dalle donne, dagli indigeni e dai negri. Gli indigeni, ad esempio, rappresentano una vera e propria forza d'urto: dopo il 1500 hanno mantenuto intatte la loro cultura e la loro lingua, attaccati a quel senso di passato che per loro rappresenta una protesta verso il presente e la loro condizione di esclusione sociale. Per loro il passato è un monito per il futuro: se c'è stato un periodo in cui erano liberi, questo può ritornare. Il presente può essere cambiato e non deve essere accettato come dato assoluto.

di Denisa Gollino

40 ANNI DI LOTTE

Riforma agraria ed eliminazione del latifondo, insegnamento scolastico obbligatorio e gratuito per i primi otto anni ed acquisizione da parte dello stato del 51% delle azioni di aziende minerarie in mano a compagnie straniere: furono queste le riforme attuate dal presidente Eduardo Frei Montalva, eletto nel 1964, che incontrarono la forte resistenza della destra conservatrice.

Nel 1969 le sinistre tolsero la presidenza alla DC, presentando un candidato unico, Salvador Allende, che esperimentò la via cilena al socialismo. Il tentativo finì tragicamente nel 1973 quando un golpe militare, sostenuto dalla CIA, portò al potere una giunta militare retta da Augusto Pinochet e costò la vita ad Allende. Il referendum del 1988, indetto da Pinochet ad un anno dalla scadenza del suo mandato, bocciò il regime al potere che finì nel 1990 con l'elezione a presidente di Patricio Aylwin Az㳀car. Succederanno quindi alla presidenza Eduard Frei-Ruiz Tagle (1993), figlio dell'omonimo ex-presidente e, nel marzo del 2000, Ricardo Lagos Escobar. (G.B.)

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