Capitane coraggiose sul Delta del Niger

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Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un documentario che parla di Africa, di donne, di risorse, in un contesto dove però è difficile immaginare rotonde femminilità vestite di colori sgargianti e di sorrisi accoglienti. In Daughters of the Niger Delta, infatti, si racconta di inquinamento, oro nero e speculazioni che galleggiano sulle putride acque di quello che altrimenti sarebbe uno dei fiumi più ricchi e belli del mondo, il Niger appunto. Girato nel 2012 da Ilse van Iamoen all’interno di un progetto di empowerment femminile nella regione, il documentario racconta in 56 minuti la storia di tre donne che non è per nulla inappropriato definire eroine e che incarnano l’energia delle donne “comuni”, che combattono ogni giorno battaglie di cui raramente veniamo a conoscenza. Sono battaglie che riguardano il gravissimo inquinamento del fiume, i conflitti che ne derivano e i sequestri annessi, ma che ci parlano anche della vita di ogni giorno quando si snoda tra l’irresponsabilità di grandi compagnie, le ingiustizie di genere e l’assenza di tutele governative.

E’ Amnesty International a rendere note le analisi effettuale sugli ultimi dati rilasciati dall’italiana Eni e dall’olandese Shell: oltre 550 episodi di sversamento di petrolio nel 2014, corrispondenti a più di 5 milioni di litri. Per dare un’idea della proporzione surreale, si pensi che in Europa, dal 1971 al 2011, le uscite registrate sono state 10. E’ evidente che l’incuria e il disinteresse delle compagnie che operano in territori indebitamente considerati “franchi” sono il metodo adottato per la gestione degli impianti. E le conseguenze non ricadono ovviamente solo sulle falde acquifere, ma si tratta di una tragedia che inficia la qualità della vita in generale, dall’aria che si respira alla terra che si coltiva. Se Shell non ha fatto alcun passo avanti nel contrastare le fuoriuscite, non possiamo certo affermare che Eni sia più attenta e rispettosa. Audrey Gaughran, direttrice del Programma Temi globali di Amnesty International, si fa portavoce di una richiesta posta direttamente sui tavoli del governo italiano, per andare a fondo nelle indagini che coinvolgono la compagnia: “in via prioritaria, tutte le compagnie petrolifere che operano in Nigeria devono rivelare l'età e le condizioni delle loro infrastrutture, avviare una revisione delle loro procedure operative e rendere note le conclusioni, in modo che le comunità locali sappiano cosa sta succedendo". Eni, nella zona del Delta del Niger, gioca un ruolo minore e di conseguenza anche le conseguenze passano sotto silenzio, pur raggiungendo livelli di pericolosità altissimi (delle 550 fuoriuscire del 2014, ben 349 sarebbero a carico della Nigerian Agip Oil Company, di cui Eni è proprietaria).

Se però in qualunque altro Paese si potrebbe parlare di emergenza nazionale, per la Nigeria e per gli standard operativi adottati si tratta di “ordinaria amministrazione”. Talmente ordinaria che, all’ordine del giorno, sono anche gli altissimi costi umani a carico dalla popolazione locale che si trova da un lato a dover sopravvivere in condizioni pericolosissime per la propria salute e per quella delle generazioni a venire e, dall’altro, ad essere accusata di sabotaggi e furti agli impianti. Una versione che viene ovviamente contestata dalle comunità locali e dalle organizzazioni non governative che ne supportano la protesta e il cui obiettivo è quello, almeno, di ottenere il giusto risarcimento alla leggerezza con cui vengono gestiti gli impianti di estrazione che causano ingenti danni ambientali. Riconoscere o meno la propria responsabilità nei guasti che si verificano e che causano le fuoriuscite, per un’azienda come Shell, significa determinare l’ammontare dei danni da risarcire. Sapere e tacere, questo è il motto. Oleodotti antiquati e scarsa manutenzione, danni ignorati e anni di cause per mettere spalle al muro i responsabili.

Nonostante la legge nigeriana preveda che contenimento degli sversamenti e bonifica delle aree interessate siano a carico delle compagnie petrolifere, questo raramente accade e la popolazione del Delta del Niger annaspa da decenni in livelli di inquinamento accumulati in anni di investimenti e pratiche irresponsabili.

Questa è la realtà che ogni giorno abitano donne come loro. Come Hannah, vedova e pescatrice, stremata dai gravi problemi di salute causatile dall’inquinamento, che però non si dà per vinta perché vuole evitare a tutti i costi che la povertà possa indurre i suoi figli a farsi coinvolgere in affari sporchi; Naomi, che può frequentare la scuola grazie al coraggio della madre, che ha scelto di poterle dare le stesse opportunità che ha offerto ai fratelli maschi e che la sostiene nell’affrontare i ricatti subiti da professori che scambiano sesso per voti; Rebecca, terza tra le mogli di un matrimonio poligamo, vittima di un marito per cui i figli non sono mai troppi, nonostante i numerosi aborti subiti.

Donne combattenti e resilienti, che non possiamo non chiamare capitane coraggiose mentre su piccole barche di fortuna scivolano sulle acque lucide e unte del Niger, con un solo pensiero in testa: garantire ai loro figli un futuro migliore in un Paese sacrificato sull’altare del petrolio.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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