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Dietro il velo della rivoluzione tunisina
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Complementare. Un termine all’apparenza innocuo, inoffensivo; non certo una di quelle parole capaci di evocare, nella memoria collettiva, i fantasmi sinistri della Storia. Eppure, una parte non irrilevante del futuro tunisino, e mediterraneo, passa da qui. Gli esiti di quella che è stata accolta con entusiasmo e sorpresa (ma non senza timori) come la rivoluzione dei gelsomini potrebbero essere indirizzati dall’adozione o dalla bocciatura di un aggettivo; tanto più importante poiché si riferisce al ruolo della donna nella società, e dunque all’idea di convivenza civile che si vuole realizzare.
Ma partiamo dai fatti: Mercoledì 1 Agosto 2012, in pieno mese di Ramadan, la commissione diritti e libertà dell’Assemblea costituente tunisina ha approvato, con il voto determinante del partito islamico di maggioranza Ennahda, un testo recante un’indicazione secondo la quale: “Lo Stato assicura la protezione dei diritti della donna, attraverso il principio della complementarità all'uomo in seno alla famiglia, e in qualità di associata all'uomo nello sviluppo della Patria”. Indicazione, che a detta di un gran numero di associazioni, interne ed estere, impegnate nel campo dei diritti civili, nonché di influenti organismi internazionali quali il Consiglio d’Europa, potrebbe rappresentare un ripudio di quell’avanzato sistema di tutela dell’eguaglianza fra i sessi garantito dal codice femminile bourguibiano del 1956, fiore all’occhiello del progressismo arabo.
Il punto è questo:complementare non è sinonimo di eguale. È lecito domandarsi se davvero una lieve sfumatura possa aprire la strada ad un’involuzione in termine di diritti. La risposta, purtroppo, non può che essere affermativa: sul terreno politico, ancor di più su quello giuridico, la scelta del linguaggio è importante e non certo casuale. D’altronde, basta ricorrere ad un comune dizionario per rendersi conto del pericolo. Esistono due possibili significati riferibili al vocabolo in questione. Il primo: “Si dice della parte che manca per fare il tutto”. Ed è questa la definizione su cui poggia la difesa che molti esponenti del partito filoislamico si sono affrettati a dare: una donna intesa come parte dell’intero, come tassello che completa il quadro naturale e sociale dei rapporti. Nulla di cui preoccuparsi, dunque. V’è, però, un significato diverso: complementare, inteso come sinonimo di “secondario, ausiliario”. Ed è questa la grande ombra che grava sulle speranze di quanti hanno creduto che il vento della primavera araba potesse allontanare, oltre all’aria, ormai irrespirabile, dei regimi autoritari, anche i pregiudizi e le paure di un’Europa sempre più inquieta. Almeno qui.
Sono pochi gli elementi di cui rallegrarsi, se l’interpretazione più vicina al vero è quella che si ricava dal contesto. Particolarmente preoccupante è il comportamento della polizia, protagonista di un lassismo macroscopico, che non consente di reprimere i troppi episodi di intimidazione e aggressione a danno delle manifestazioni di stampo laico. Alcuni osservatori vedono in questo una ricerca di scarsa esposizione, essendo quest’ultima oggetto di biasimo da parte della popolazione per il ruolo che essa ebbe negli anni di Ben Alì. Si tratta, forse, di una lettura eccessivamente ottimistica. Nel frattempo, a quegli stessi cortei che osteggiano l’adozione, da parte dell’Assemblea plenaria, dell’articolo sulla complementarietà votato in commissione, si sono uniti quelli di giornalisti ed editori, che accusano il governo provvisorio di voler comprimere la libertà d’informazione, progettando di influenzare le nomine di direttori e redattori delle principali testate. Progetto smentito dai vertici della coalizione che guida il Paese.
Difficile capire dove risieda la verità in un ambiente sociale in cui le informazioni si susseguono rapide e in cui il desiderio di arrivare alla notizia spesso si scontra con la necessità di verificare e soppesare. Esemplare, in tal senso, la ribalta mediatica data ad una voce che voleva dei turisti stranieri respinti alla frontiera a causa di un abbigliamento troppo audace; voce risultata, in seguito, totalmente infondata. Altrettanto esemplare il timore, sorto in ambienti progressisti, per una possibile reintroduzione della poligamia; prospettiva paventata a seguito dell’emersione di un caso individuale di bigamia, da parte di un deputato del partito Ennahda. Dicerie, dunque. Tuttavia non vanno sottovalutate, poiché rappresentano i tasselli di un mosaico più ampio: quel “contesto” di cui si parlava.
Per ora, l’unica certezza, è una società che si presenta sempre meno secolarizzata. Lo testimoniano, con brutale immediatezza, i molti veli che celano una quota ormai rilevantissima della popolazione femminile. Nulla di male, certo. Tuttavia sorprende la rapidità con cui si sono diffusi, subito dopo la caduta del regime. Viene da pensare che la libertà di costumi prerivoluzionaria non fosse un carattere genuino, largamente condiviso, quanto una imposizione dall’alto, volta a dare una certa immagine del paese ai partner occidentali. Si pensi al divieto (poi rimosso sotto la stessa presidenza Ben Alì) di portare il velo nelle scuole e nelle università; o all’attenzione rivolta agli abituali frequentatori delle moschee, da parte delle forze di sicurezza. Detto ciò, molti dubbi permangono. Così come permane la curiosità di capire cosa si nasconda dietro quei veli; per meglio dire: cosa si nasconda dietro il velo della rivoluzione tunisina.
Omar Bellicini, da Tunisi