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Antakya - Turchia, dove nessuno vuole sentir parlare dei profughi siriani
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Mentre si susseguono le notizie di manifestazioni nelle piazze siriane siriane represse violentemente dal regime di Assad, l'inviato di Unimondo al confine tra Turchia e Siria, Andrea Bernardi, ci riporta la voce di coloro che non vogliono saperne dei profughi e che vorrebbero tornare a tessere relazioni con il regime. Non si distanzia molto dalla voce di rifiuto di molti comuni italiani ostili ad ospitare i profughi del Nord Africa per poter esser lasciati in pace a fare il business di sempre. (FP)
Samandag (Turchia) - “La concentrazione dei problemi è solo nelle aree sunnite del Paese, i villaggi. È chiaro che in Siria c’è un gioco di potere tra stati stranieri. L’Iran supporta gli Hezbollah libanesi, che sono comunque tollerati dal regime di Assad. Gli Stati Uniti, da quando è iniziata la primavera araba, supportano i Fratelli Musulmani. Lo hanno fatto in Egitto e lo stanno facendo in Siria”. Mehmet Dogru è il capo redattore del quotidiano locale di Samandag, Cemre. Un uomo sulla cinquantina che si autodefinisce marxista leninista. In poche parole riassume il pensiero della maggior parte di turchi che vivono nella regione di Antiakya, a Sud-Ovest della Turchia.
Samandag, sulle rive del fiume Oronte, è una cittadina secolare di circa 36mila abitanti, dove la setta sciita degli alawiti, sunniti e cristiani ortodossi vivono in pace, fianco a fianco. Fino al 1930 era parte della Siria. Gli abitanti raccontano che ci sono due versioni per la quale è diventata turca. Una ufficiale, l’altra ufficiosa ma più importante. La prima dice che ci fu un referendum per scegliere, dopo l’occupazione francese, da che parte stare. La seconda, che è anche quella che da queste parti va per la maggiore, è che il governo turco di allora, con la scusa che lì, i turchi, vivevano da oltre 4mila anni, l’ha annessa al suo territorio. “Se tre religioni riescono a vivere in pace qui, perché non possono farlo anche in Siria?”, domanda con un po’ di retorica e superficialità il caporedattore di Cemre, che ha una tiratura di 850 copie al giorno e sette giornalisti.
“In questa città – racconta Mehmet – il 90 per cento della popolazione è alawita”. Proprio come il presidente siriano Bashar Assad. E secondo molti, è proprio in questo piccolo paese che la famiglia Assad ha origine. È difficile che qualcuno si schieri con la Siria dei dissidenti e dei manifestanti. “Ogni settimana c’è una manifestazione pro-Assad” – dice. “Marce pacifiche per dire che non vogliamo problemi con la Siria”. “I siriani che vengono qui – prosegue – dicono che non ci sono problemi. Sono i Paesi attorno che vogliono creare problemi”. La posizione degli abitanti è chiara e sbilanciata da una parte: “Assad ha attuato un processo di democratizzazione. Va incrementato, ma è un passo. Però senza la pressione degli Stati Uniti e di Israele, che non possono interferire nelle decisioni interne di un Paese”.
Mehmet sottolinea più volte che Samandag è una città socialista. “Questa area della Siria politicamente è di sinistra e le persone non vogliono interferenze. Molte persone fanno viaggi giornalieri dall’altra parte del confine. Vanno ad Aleppo, a Damasco. Solo per business, senza guardare quali sono i problemi di un Paese che a noi non ha mai dato fastidio”. E business e proteste non vanno d’accordo. Da queste parti, i profughi che affollano ancora le tendopoli messe a disposizione dal governo turco non sono ben visti. Come un po’ in tutte le maggiori città della provincia di Antakya, dove nessuno vuole parlare di profughi e Siria. La vita scorre normale, nonostante a qualche decina di chilometri migliaia di famiglia turche vivono in tende bianche con il logo della Mezza Luna Rossa.
La domanda che gira tra molti comuni cittadini della regione di Antakya è la stessa: “Perché i media stranieri mostrano solo le immagini di manifestanti uccisi dalla Polizia e non quelle dei poliziotti uccisi dai manifestanti?”. Che gli occhi della gente, da queste parti, preferiscono rimanere chiusi, lo conferma ancora Mehmet: “In Arabia Saudita le donne non hanno diritti, non c’è democrazia. Però nessuno interviene. In Siria le donne sono libere di fare quello che vogliono. Fanno business, guidano le auto. Però gli stati “democratici” l’attaccano”.
Del resto, anche lo stesso governo parla di profughi che dalla regione di Antakya sono tornati al loro Paese. Migliaia, secondo i numeri che spediscono quotidianamente ai giornalisti. Ma è mistero. Nessuno ha visto pullman carichi di persone tornare al confine. Dalle colline attorno alle tendopoli il numero non sembra aumentato rispetto alla settimana scorsa, vero, ma neppure diminuito. A Guvecci, il piccolo villaggio a poche centinaia di metri dal confine turco, gli attivisti siriani che non vogliono entrare nelle tendopoli si rifugiano illegalmente nelle case degli agricoltori e allevatori della zona. Organizzano conferenze stampa dove lanciano ultimatum al governo e all’esercito. Senza risultati. Guvecci, pare essere l’unica città che ha accettato la presenza di profughi. Molte famiglie, soprattutto donne e bambini restano accampate sulla linea di divisione tra Siria e Turchia, pronte a tornare a casa nel caso di una ritirata dell’esercito o a fuggire dall’altra parte nel caso di nuove violenze.
Andrea Bernardi
(Inviato di Unimondo)