Alberi, madri e uomini. O della società che vorremmo

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Foto: Unsplash.com

Brulichiamo. Forse non è il termine più elegante, ma quando 8 miliardi di persone si affollano sul Pianeta e lo popolano con una curva esponenziale in continua crescita, respirando con i loro fiati caldi, scaricando app e accumulando cose, stringendosi sui mezzi di trasporto e sparpagliando plastica e altri rifiuti di ogni tipo in giro per terre e per mari… beh, diciamo che questo termine sembra abbastanza azzeccato. Eppure non siamo certo le creature che occupano più spazio sulla Terra.

Chi si tiene stretto questo primato sono le piante, con una massa complessiva pari a migliaia di volte quella dell’umanità (la proporzione con noi è di ca. 400 a 1): ma la nostra cecità (quella che gli scienziati chiamano plant blindness) fa sì che ci perdiamo questa schiacciante maggioranza e di fronte a un bosco o a una foresta tendiamo a vedere qualcos’altro (un uccello, una casa, una persona, un mammifero), ma mai facciamo caso agli alberi, che restano lo sfondo indefinito di un particolare a cui invece prestiamo attenzione. Perché?

Principalmente per una ragione: sono organismi sessili, termine scientifico che indica l’incapacità di muoversi. Restano fermi (o comunque apparentemente fermi) e questo riduce di molto l’interesse che possiamo provare per loro, tanto da farceli letteralmente “perdere di vista”.

Una nostra tara sensoriale, potremmo chiamarla così, che però nell’ultima decina d’anni sembra aver sfondato il muro dell’indifferenza ed essere stata presa in carico da scienziati e scrittori per dare finalmente alla consistente parte vegetale con cui condividiamo questa Casa la propria rivincita. Dalla pioniera canadese Suzanne Simard ai più recenti Peter Wohlleben, Richard Powers e Stefano Mancuso (solo per fare qualche nome tra i più noti), le piante, con la loro affascinante e intricata capacità di comunicare tra loro e prendersi cura reciprocamente con vere e proprie reti di comunicazione molto sofisticate, sono diventate protagoniste di ricerche tra le più complesse. Vite con dinamiche nascoste nel sottosuolo, artefici di conversazioni, pensieri e desideri, non certo concepiti secondo le nostre stesse regole, ma pur sempre degni di questi nomi.

Wood Wide Web le abbiamo sentite spesso chiamare, ovvero alleanze “simili alla rete internet” a cui stiamo ormai abituandoci e di cui sentiamo sempre più spesso parlare, che ci raccontano di come le foreste siano paragonabili a “comunità socialiste”. Una prospettiva che per noi nasconde una sorta di forma di redenzione: abbiamo sempre considerato gli alberi come legno, ora potremmo cominciare a considerarli come parenti. Ma anche una prospettiva che ha preso piede a una velocità rapida, inaspettata e inconsueta rispetto alle tendenze che caratterizzano la maggior parte delle scoperte della scienza, che spesso languono nei laboratori per decadi prima di destare interesse per il grande pubblico.

È lecito quindi porsi una domanda, e cioè: cosa ci rende così impazienti di ascrivere qualità umane agli alberi? Non è che magari ci stiamo perdendo qualcosa, presi come siamo a vedere qualunque essere vivente come specchio per definire noi stessi?

Le affermazioni nelle pubblicazioni dei ricercatori, a partire proprio dalla Simard, sono pressoché impeccabilmente asciutte, un sistema interconnesso di “supercooperatori”. Una scoperta che ha sofferto sia delle difficoltà del mondo della ricerca in generale quando deve affrontare teorie che rivoluzionano l’approccio fino ad allora consolidato, sia le prese in giro e le fatiche dell’essere donna in un mondo maschilista e popolato da uomini che hanno spesso fatto mancare il necessario supporto. Supporto che è invece arrivato dalle colleghe scienziate, dando vita a un’altra preziosa intuizione, quella della maternità, per descrivere le dinamiche che portano alberi adulti ad aiutare con il passaggio di sostanze nutritive (attraverso i funghi) gli alberi più giovani: un’immagine che, resa accattivante anche dalla contemporanea (ma forse non consapevole) regia di Cameron per Avatar, è entrata subito in sintonia con lo spirito del tempo.

Da allora, però, con la fama e la simpatia che questa umanizzazione ha destato nell’opinione pubblica, sono usciti altri studi (45 autori coinvolti dal 2023) che evidenziano come gli elementi per dare per scontate queste dinamiche sotterranee siano ancora deboli e, sebbene statisticamente significativi, non ancora biologicamente rilevanti per tutta la polvere che stanno alzando, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti funginei che a livello di micorrize sostengono queste osservazioni. La stessa rivista «Nature», che ha pubblicato studi che avvallano l’ipotesi dell’“albero madre”, ha recentemente fatto uscire un articolo, la cui riflessione è stata ripresa in maniera approfondita anche dall’autorevole testata The Guardian, in cui si dà voce ad alcuni ecologi che considerano eccessiva la notorietà ottenuta dalla scoperta e carente di basi solide. 

L’ipotesi che per il momento possiamo azzardare, al di là del dibattito scientifico che è giusto continui in maniera onesta nei luoghi di competenza, è che le intelligenze sono diverse e a queste possibilità dobbiamo lasciare lo spazio che meritano, senza doverle necessariamente configurare secondo i nostri parametri e senza che esse abbiano sempre a che fare nello stesso modo con concetti come consapevolezza e coscienza, con le stesse definizioni di movimento o con le stesse scale temporali che ci sono familiari.

L’intelligenza appartiene agli alberi, anche se è un’intelligenza vegetale. L’intelligenza appartiene alle nuove tecnologie, anche se è un’intelligenza artificiale. Si tratta di considerare però anche le niente affatto banali implicazioni etiche che queste verità comportano. Ed è certo che la fama ottenuta dai risultati di ricerca della Simard va direttamente al cuore degli uomini preoccupati dal cambiamento climatico e dalle catastrofi avvenute e attese, facilitando la diffusione di storie “che ci assomigliano” e che ci rendono forse più comprensibile e accessibile un mondo complesso che resta ancora in gran parte sconosciuto. Ma che abbiamo bisogno di sentire più uguale al mondo che vorremmo avere: anti-capitalista, femminista e interconnesso. Quel mondo che dovremmo provare a tutelare dai disastri che continuamente infliggiamo. E in cui gli alberi restano ancora una visione abituale, ma una presenza aliena e misteriosa che ci incoraggia a coltivare un valore dimenticato: l’umiltà.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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