Accoglienza in panne: dal “rifugiato in casa” alla retorica dell’odio

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“Un bonus di trenta euro al giorno alle famiglie che ospitano immigrati non solo minori ma anche adulti”. La proposta, resa nota ai cittadini dal sindaco di Roma Ignazio Marino, non ha fatto in tempo nemmeno a far discutere che è stata subito murata. “Vorrei essere chiaro – ha risposto perentorio il responsabile del Viminale Angelino Alfano – il Ministero dell’Interno non tirerà fuori un euro per questo. Ogni ipotesi di lavoro che mi dovesse essere presentata in questo senso, da chiunque provenga, sarà da me certamente bocciata”. Stop, chiuso il discorso. Come se si trattasse di un’idea scioccante, scandalosa, e come gli è venuto in mente a Marino anche solo di ipotizzare una tale assurdità. O almeno, il messaggio che trapela dalla risposta di Alfano è questo, accompagnato dal solito codazzo di reazioni indignate, tra il continuo uso – fuorviante e a sproposito – della parola clandestino e la trita retorica degli italiani che pagano le tasse, lasciati alla canna del gas (chissà per colpa di chi).

In realtà, la “proposta-shock” di Marino sarebbe frutto di una recente riunione, sempre al Viminale, con il sottosegretario Domenico Manzione insieme ai rappresentanti di Anci e Conferenza delle Regioni. E non solo è rimasta a livello di ipotesi, ma non sarebbe nemmeno un’idea nuova. Un progetto simile, infatti, è già in atto in 9 città italiane: “Una modalità differente di utilizzare i fondi del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) – ha puntualizzato Marino – frutto del lavoro del ministero dell’Interno, discussa mercoledì al Tavolo nazionale immigrazione e già sperimentata da tempo in alcune realtà italiane, coordinate da nove Caritas diocesane tra cui Milano, Savona e Genova”. Con risultati, a quanto pare, molto positivi.

Il progetto della Caritas si chiama “Rifugiato a casa mia e il suo scopo è sperimentare un approccio alternativo, ovvero una forma di accoglienza diffusa dei rifugiati e titolari di protezione internazionale nelle famiglie, con un contributo mensile di 300 euro ad ospite. “Il nucleo del progetto – spiega Caritas – consiste nell’assegnare centralità alla famiglia, concepita come luogo fisico e insieme sistema di relazioni in grado di supportare il processo di inclusione, al fine di portarlo a compimento, attraverso il raggiungimento di quel grado di autonomia che consentirebbe ai beneficiari di emanciparsi dalle forme di aiuto istituzionale o informale, poste in essere dal terzo settore”. Le belle storie di Adama e Issa, ospitati da due famiglie – una di Genova, l’altra di Savona – danno l’idea dell’esperienza. “Non è stata questione di carità, ma di restituzione di quello che la storia ha tolto a questi ragazzi, che hanno gli stessi diritti dei nostri figli” ha raccontato a Repubblica Caterina Agosto, che ha ospitato Adama. E preziosa è la testimonianza del figlio Carlo alla Caritas (si può leggere nel sito della Caritas) che dall’esperienza con il suo “fratello adottivo” è uscito arricchito e cresciuto. Senza contare i benefici per il rifugiato, che ha potuto instaurare più facilmente dei rapporti con la comunità e alla fine è riuscito a inserirsi anche a livello lavorativo.

L’iniziativa, comunque, aveva un precedente con il progetto “Rifugiato diffuso” avviato dal comune di Torino: “Dopo i primi tre anni – si legge su Redattore Sociale – pur in piena crisi economica, l’iniziativa torinese fece registrare il 90 per cento circa di inserimenti sociali andati a buon fine, sia nel capoluogo piemontese, sia nelle periferie”. Insomma, visto che l’Italia spende il massimo nell’accoglienza ma sembra non essere in grado di offrire percorsi soddisfacenti nell’inserimento, percorsi simili valgono la pena di essere almeno discussi, se non altro per provare un approccio diverso a quello odierno dei grossi centri e della macro-assistenza, spesso fallimentare nel lungo periodo. E invece no, guai.

C’è chi dice che la proposta di Marino sia arrivata in un momento infelice, a pochi giorni dai fatti di Corcolle, quartiere alla periferia di Roma, con l’aggressione di due autiste di bus da parte di alcuni immigrati e le successive ronde, con tanto di “caccia al nero”, pestaggi e invocazioni di “pulizia etnica”. In realtà, un “momento felice” in questi tempi di crisi per un’iniziativa del genere sembra un’utopia. Basta farsi un giro nella rete: lasciano sgomenti i vari commenti agli articoli sul tema immigrazione, delle vere e proprie eruzioni d’odio, di una violenza inaudita, sulle testate di qualsiasi orientamento. Il turbamento cresce quando ci si rende conto che non si tratta solo del classico troll che vuole agitare un po’ le acque, ma è un ritornello continuo, e ci si perde in una tempesta di “hate speech” devastante, immaginando dietro la tastiera delle persone normali che si incontrano della vita di tutti i giorni, il panettiere, il giornalaio, o chissà, magari qualche insegnante. Ci si interroga sull’assurdo meccanismo emotivo che porta gli italiani a schiumare di rabbia quando si parla di assistenza agli stranieri, che scappano da guerre (fatte con armi prodotte da noi e dietro cui spesso c’è lo zampino occidentale), miseria e dittature, che muoiono nei barconi e sotto i tir, molto più che per i miliardi sfumati in tangenti e ruberie agli alti livelli di italianissime istituzioni e aziende. Li si incolpa per un degrado che ha a monte delle altre, ben note, ragioni.

Questo sì che mette paura, più della falsa “invasione” propagandata da partiti e movimenti che cercano facili consensi alimentando ed esacerbando le guerre tra poveri per i propri interessi. E non significa nascondere il problema, che esiste. “L’immigrazione che pesa sull’Italia nel 2014 è drammatica, dalle tabelle del ministero dell’Interno risulta che quest’anno sono arrivate in Italia 134mila persone e si prevede che ne arriveranno a fine anno oltre 150mila” ha detto lo stesso Marino. Di questi, 90mila sono stati soccorsi con l’operazione Mare Nostrum, che dal 1 novembre sarà affiancata dalla nuova missione FrontexPlus-Triton. Per il Viminale, i numeri aumenteranno ancora, anche se il 40% si dirigerà verso altri paesi del Nord Europa per ricongiungersi con parenti e connazionali. Se la rete Sprar dispone di circa 30-40mila posti si capisce come comunque non siamo attrezzati per questi numeri che, sebbene molto inferiori rispetto a quelli di altri paesi europei come Germania, Francia e Regno Unito, sono comunque alti. E allora, che senso ha murare in quel modo secco una proposta come quella di Marino, per cui tra l’altro si potrebbero usare fondi europei appositi, che non possono essere spesi per altro? Certo, possiamo sempre decidere di girarci dall’altra parte, come molti auspicano e come fecero tanti in un buio passato recente di cui l’Europa ancora si vergogna. Oppure attivarci, al di là delle accuse di “buonismo” (oggi la peggiore offesa), per trovare insieme soluzioni più umane e funzionali e per mostrare che, nonostante tutto, prima che italiani siamo tutti esseri umani.

Anna Toro

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