A quando le elezioni in Somalia?

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È difficile pensare alla Somalia come una terra di pace, anche se vorrei provarci con la convinzione che sempre sotto le macerie ci sia chi lavora instancabilmente per dare alla vita un futuro. Un paese, un popolo, una città conservano un’anima, senza perdere la speranza, anche quando “il paese non esiste più”, “la guerra ti annoda, ti tira, e divora”, la città diventa “violenta perché violentata; un tempo era bella e pacifica: la gente usciva la sera, andava al cinema, alle feste; oggi quella città non esiste più; la sporcizia dei politici ha interferito con la vita delle persone ordinarie”. Utilizzo le parole di Nurrudin Farah, scrittore somalo, per descrivere alcuni scorci di un paese che ha fallito sotto diversi fronti, soprattutto quello della democrazia.

Nel romanzo Nodi la protagonista è una donna, come in buona parte della letteratura di Farah: si chiama Cambara. La donna fuggita in Canada, ritorna in Somalia per riprendersi una proprietà di famiglia, ma l’obiettivo profondo è di contribuire a riportare la pace nel suo paese devastato da uomini accecati da droga e desiderio di potere; uno dei suoi primi successi è quello di aiutare dei ragazzini armati a riscattare la loro dignità attraverso il buonsenso e l’amore materno. É alle donne postcoloniali, quelle nate dagli anni Sessanta in poi, che Farah affida la rinascita dell’anima della Somalia.

È emblematico che oggi, nel 2016, nella corsa per le elezioni presidenziali sia entrata una donna, Fadumo Dayib, quarantenne, nata in Kenya da famiglia somala, espulsa nel 1989 e costretta a prendere un volo per la Somalia con una carta d’imbarco su cui c’era scritto “go home”, e a recarsi nel suo paese d’origine, con lo status di rifugiata, poi nuovamente in esilio durante la guerra degli anni Novanta verso la Finlandia, dove attualmente vive, passando per la Romania. Somala, anche se dalle appartenenze multiple, Fadumo non vuole vincere le elezioni, né avere potere, ma “provocare dei cambiamenti sociali in Somalia”.

Per sottoporre la sua candidatura all’approvazione del parlamento, Fadumo ha pagato una cauzione di circa diciotto mila euro. La sua candidatura è un obbligo morale. “La Somalia non avanza. La mia generazione e quella di mia madre hanno distrutto questo paese. Noi ora dobbiamo fare qualcosa in modo che la generazione dei nostri bambini abbia qualcosa da ereditare. Un angolo dove fare ritorno, dove troveranno dignità e prosperità. I nostri dirigenti ci hanno lasciato cadere. Noi, somali, siamo responsabili della guerra. I nostri silenzi, le nostre assenze ci rendono responsabili. Ma noi siamo anche la soluzione. Dobbiamo smetterla di gettare la responsabilità sugli altri ed assumere le nostre responsabilità”.

Le idee sono chiare, l’essere donna non è un problema, vivere all’estero neppure. È una ferrea oppositrice del sistema clanico vampirizzato dalla politica e ritenuto il responsabile del conflitto somalo, ma non dei clan, intesi come fabbriche sociali di identità culturale, simboli di provenienza e della radici di ognuno.

Neppure la minaccia terroristica la indebolisce nelle sue convinzioni: al Shabab (“i giovani”) non sono altro che il risultato del fallimento dello Stato. Laddove non ci sono opportunità, muoiono le aspirazioni e con esse il futuro. Le milizie hanno successo tra i giovani più vulnerabili economicamente e senza istruzione perché rappresentano una fonte di guadagno immediato. Si finanziano grazie a saccheggi, sequestri, traffici illegali di armi e droga (il qat) e mercato nero, rimesse provenienti dalla diaspora, ma anche aiuti esterni provenienti dai paesi arabi e dall’Etiopia. Si tratta di un insieme di elementi tra loro interrelati che sta in piedi con l’uso della corruzione, della violenza armata e della forza.

Crede nell’unità della Somalia pur ammirando il processo di democratizzazione avviato nel Somaliland dichiaratosi indipendente da Mogadiscio nel 1991 e non auspicando la balcanizzazione del Paese. Cosa accadrebbe se diciotto regioni diventassero indipendenti? Lo scenario plausibile potrebbe piuttosto prendere la via della decentralizzazione, un processo che aiuterebbe le periferie all’autonomizzazione, in cui non è solo la capitale a beneficiare di sviluppo politico, economico e socio-culturale, ma anche il resto del Paese.

Se la storia ci raccontasse domani del successo di una donna eletta presidente della Somalia nel 2016, quale paese avrebbe ereditato Fadumo Dayib? Indipendente da cinquantasei anni, ventidue trascorsi sotto il regime di Siad Barre (1969-1991) al termine dei quali si è generato il caos, la Somalia ha conosciuto oltre un decennio di vuoto, di assenza di governo, cioè è stata “un paese senza stato”, fino al 2004 quando, per i successivi otto anni un governo di transizione – Transitional Federal Government – riconosciuto anche a livello internazionale si è tenuto in piedi giungendo alle elezioni del 2012, le prime dopo vent’anni, che hanno portato al potere Hassan Sheikh Mohamud che sta oggi giungendo al termine del suo mandato. Su di lui era stata riposta grande fiducia, soprattutto a livello internazionale: Regno Unito, Turchia, Cina; un anno più tardi un rapporto delle Nazioni Unite rivelava che, nonostante il cambiamento al vertice, la sottrazione di risorse pubbliche permaneva quale pratica ereditata dalle gestioni precedenti.

C’è un altro “se” da porre. Se ci saranno le elezioni. Fin dallo scorso anno, il presidente aveva annunciato che le condizioni securitarie e politiche non rendevano possibile lo svolgimento di un’elezione che permettesse a dieci milioni di elettori somali di recarsi alle urne. Il parlamento non ha ancora approvato il progetto del processo elettorale, pur avendolo esaminato a maggio 2016. Tra le propose ci sono le “quote rosa” che prevedono l’allocazione del 30% dei seggi regionali alle donne e una formula “4,5” che prevede la condivisione del potere tra i quattro principali clan e una coalizione di clan minoritari. Ma la situazione resta comunque fragile. Anche l’idea del governo di formare un collegio di grandi elettori scelti dai leader clanici sembra una trovata del presidente più che una seria proposta politica.

Senza illudere i sogni, senza perdere di vista le enormi difficoltà di un Paese che anche quest’anno necessiterà di aiuti umanitari per milioni di persone a causa della siccità, senza dimenticare che strade ed edifici di Mogadiscio sono sempre sotto il mirino di attacchi, l’ultimo mentre scrivo queste pagine, ritengo sia straordinaria la forza di chi afferma di voler lottare per riportare la pace; penso non sia un’utopia. Faremo i conti a fine agosto o nei mesi seguenti che ci porteranno a chiudere questo 2016.

“Se lei può causare un cambiamento così grande nelle poche ore che ha trascorso con noi, immaginate come sarà dopo che è stata con noi molto più a lungo. Fratelli miei, rimettiamoci al lavoro, perché siamo ancora in tempo per salvarci. C’è ancora speranza di riconquistare la pace”. Le parole sono di Nurrudin Farah. 

Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta

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