Serie A, un calcio che non vuole risolvere i suoi problemi

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«L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che “Opti Pobà” è venuto che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». Per l’effetto che ha generato, il momento in cui queste parole sono state pronunciate può essere paragonato al fermo immagine di un fiammifero che, cadendo, tocca il suolo di una polveriera generando una terribile esplosione. L’autore della frase, o se preferite l’incauto “piromane”, risponde al nome di Carlo Tavecchio, 71 anni, eletto alla presidenza della FIGC l’11 agosto scorso. Elezione, quella del nuovo capo del calcio italiano, molto sofferta poichè preceduta da una serie di lunghe polemiche, scoppiate proprio dopo l’improvvida uscita pubblica di Tavecchio, il quale con l’appellativo dispregiativo “Optì Pobà”, riferito alla categoria dei giocatori extracomunitari, è riuscito a farsi dare del razzista ignorante dalla quasi totalità degli addetti ai lavori e non solo, se si considerano anche le reazioni del mondo politico, uno su tutti quello di Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Sport.

Ad onor del vero, va detto che le polemiche di cui sopra sono state in un certo qual senso ben accette dai detrattori di Tavecchio, la cui candidatura era vista male da molte persone, anche senza “Optì Pobà”. Classe 1943, esponente brianzolo della Democrazia Cristiana, ricopre il ruolo di sindaco della sua città natale, Ponte Lambro, dal 1976 al 1995. Si impone nella Federcalcio quando nel 1999, viene eletto presidente della Lega Nazionale dilettanti. Da lì comincia una silente, invisibile, ma inesorabile scalata, fino a coprire il ruolo di vice presidente vicario della FIGC nel 2009. Nel suo “palmares” può vantare anche qualche condanna, raccolta qua e la in diversi procedimenti giudiziari, che vanno dall’evasione fiscale all’abuso d’ufficio per violazione delle norme anti-inquinamento. Un “tipetto sveglio”, insomma, che non si fa molti problemi di fronte ad opportunità di conquista del potere, ma che con il calcio e con i valori dello sport in generale, forse, non dovrebbe averci a che fare. E sì, perchè il disappunto sulla candidatura di Tavecchio a capo del calcio italiano, arriva forse un pò tardi. Diciamoci la verità, non avrebbe dovuto mai farne parte. Svegliarsi all’ultimo minuto non assolve coloro i quali gli si sono opposti contrapponendogli Demetrio Albertini il quale, onestamente, non hai mai rappresentato ne un avversario, ne soprattutto un’alternativa.

Ed è proprio questo il problema: l’alternativa. Non tanto ai singoli, ma ad una filosofia di gestione che ha permesso a persone come Tavecchio di prosperare nell’ombra, per poi trovarceli a presiedere la FIGC che, alla luce degli ultimi anni, appare incapace di interpretare le nuove sfide lanciate da uno sport, il calcio, sempre meno gioco e più business. Non che sia un male a dire il vero, ma se c’è una colpa grave che va imputata ai dirigenti del calcio italiano è proprio quella di non aver saputo programmare ed accompagnare un’evoluzione professionale di questo sport, i cui protagonisti principali, i giocatori, un tempo terminata la carriera agonistica o diventavano allenatori o dirigenti o, altrimenti, dovevano in qualche modo sbarcare il lunario, perchè quanto guadagnato per le proprie prestazioni calcistiche, anche se ben pagato, non bastava di certo a garantirti una vita di rendita. Oggi invece, i calciatori sono atleti e, allo stesso tempo, personaggi di uno star sport system, attorno al quale ruotano procuratori, politici, imprenditori, personaggi dello spettacolo.

Gli anni ‘90 sono stati da questo punto di vista, il momento di passaggio tra queste due ere e, guarda caso, sono stati anche gli anni in cui il calcio italiano ha vissuto la sua migliore stagione: i mondiali di calcio organizzati nel 1990 con il rifacimento degli stadi, i club italiani che per anni trionfavano in tutte le competizioni europee, la Serie A nella quale militavano i più forti giocatori al mondo, un movimento calcistico prospero che aveva non solo nella nazionale A, ma soprattutto nell’Under 21 di Cesare Maldini vincitrice degli Europei di categoria nel 1992, 1994 e 1996 l’indicatore di uno straordinario momento di grazia.

Dal 2000 in poi comincia un lento ma inesorabile declino. Sempre meno vittoriosi in campo europeo, diventiamo Campioni del Mondo nel 2006 grazie ad una nazionale composta da chi dieci anni prima, manco a farlo a posta, dominava con l’Under 21. Fu il canto del cigno.
 La situazione attuale vede stadi vecchi, insicuri, inadatti ad ospitare famiglie, scandali legati a scommesse e frodi sportive, società condizionate dagli ultras e indebitate, valori tecnici assoluti della Serie A per cui da anni non si riesce a portare una squadra italiana alla finale Champions o UEFA League, nazionale maggiore incapace di accedere alla fase ad eliminazione diretta ai mondiali del 2010 e del 2014 con anche l’Under 21 incapace di anche solo sfiorare i risultati di 20 anni prima. Questi sono i problemi.

Di fronte a questo scenario, le dimissioni contemporanee di Abete e Prandelli, rispettivamente presidente della FIGC e Commissario Tecnico della Nazionale, avrebbero dovuto costituire un momento palingenetico, di rinnovamento, sia etico che manageriale.
 La Germania ha vinto i recenti Mondiali con una squadra giovane, ma soprattutto con un movimento dinamico, con un campionato dove le squadre giocano in stadi moderni, di loro proprietà, offrendo ai tifosi non solo spettacolo, ma anche servizi e spazi di socializzazione: ristoranti, palestre, cinema, musei, supermercati. Sono i tedeschi il benchmark, il punto di riferimento che per essere raggiunto ha bisogno di nuovi manager, vogliosi di creare qualcosa di nuovo e competitivo, coraggiosi ma competenti, capaci di imporsi anche a livello internazionale.
 
Ora, di fronte ai problemi e alle opportunità di rinnovamento sopra citati, noi abbiamo risposto con Tavecchio che se per questo si è anche imposto a livello internazionale, ma non nel migliore dei modi dato che l’UEFA, sempre per “Optì Pobà”, ha annunciato di aver aperto un’inchiesta sul suo conto per «presunte frasi razziste». Un bel biglietto da visita, non c’è che dire, al quale aggiungiamo l’annuncio dell’ingaggio di Antonio Conte per il ruolo di CT per un contratto biennale da 3,6 milioni di euro netti a stagione, che equivalgono ad un esborso lordo che si aggira sui 5,5 miliardi l’anno. In tempi di spending review un bel segnale davvero. Inchiesta Uefa e contratto miliardario a Conte. Finita qui? Macchè. Siccome vale sempre la regola del non c’è due senza tre, la prima decisione del neo presidente della FIGC è stata la depenalizzazione sportiva della discriminazione territoriale, che non sarà più un illecito, ma una sorta di insulto veniale, tipo quelli che si sentono alle partite dell’oratorio, al quale non seguirà più la chiusura delle curve, ma darà luogo ad una «graduale» punizione di ordine amministrativo per le società sportive. Tradotto: se durante Verona - Napoli i tifosi della prima inneggeranno con cori tipo “Vesuvio bruciali tutti”, gli organi di giustizia federali, in tutta probabilità, si limiteranno ad una multa.

Tavecchio, che è uomo pratico, avrà pensato che i suoi detrattori sarebbero rimasti con un palmo di naso se fosse riuscito ad ingaggiare per il ruolo di CT della Nazionale l'allenatore che negli ultimi tre anni ha avuto forse la media punti più alta in Europa e che, perciò, tutto il resto sarebbe stato dimenticato, “Optì Pobà” compreso, ovviamente.

Da una parte, il suo ragionamento è corretto perchè finora ha funzionato sempre così. Dall'altra, però, è che con questa logica oggi ci troviamo in pieno decadentismo. Si va avanti, ma le squadre vincono poco, le società sono in perdita dal punto di vista finanziario e i tifosi sono insoddisfatti per il livello di spettacolo, rischiando la loro sicurezza personale. Se questi fattori non sono ancora sufficienti per dare avvio ad una rivoluzione, non oso pensare quale sia il punto di fusione.

Ieri ha avuto inizio il nuovo campionato di Serie A, ma in realtà non c'è nulla di autenticamente nuovo, di rinnovato in un calcio a cui servirebbero dei manager capaci di attrarre investimenti stranieri, seguendo però le regole del Fair play finanziario, che sappiano riportare le famiglie in stadi sicuri e all’avanguardia, che non utilizzino appellativi tipo “Optì Pobà” per rivolgersi a quei giocatori stranieri, che nell’immaginario ottocentesco di Tavecchio hanno la sveglia al collo e l’anello al naso, che sappiano portare il calcio tra i giovani con un’organizzazione delle scuole calcio dove si insegni ai giovani non solo a stare in campo, ma soprattutto a sapersi gestire in modo responsabile e professionale, per non parlare della lotta alle scommesse clandestine.

Una nuova era, insomma, per l’avvento della quale, senza voler essere uccello di male augurio, si ha l’impressione che dovremo attendere ancora ad calendas graecas.

Pasquale Mormile

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