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Cooperazione: oltre il paternalismo
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La puntata conclusiva di "Dolomiti di pace", svoltasi a Rovereto, ai piedi della Campana, ha affrontato il tema della "pace" come costruzione. Partendo, con la partecipazione di alcuni protagonisti diretti, da due casi emblematici: il Mozambico, come esempio di una riconciliazione ormai consolidata, e la Somalia dove solo oggi, invece, si cerca di ottenere lo stesso risultato. Due casi diversi, quindi, esaminando i quali si possono facilmente individuare delle similitudini a partire, ovviamente, dalla comune appartenenza africana, continente nel quale più che in ogni altra parte del mondo i temi dello sviluppo, della democrazia e della pace sono strettamente intrecciati. La prima lezione che si può trarre dalle due esperienze è proprio la necessaria complementarietà di questi diversi elementi.
Nell'approccio occidentale ai problemi dell'Africa, invece, su questo punto si è spesso oscillato, nel corso degli anni, fra atteggiamenti radicalmente contrapposti. Negli anni'80, ad esempio, era diffusa la convinzione che fosse sufficiente promuovere lo sviluppo economico per ottenere, quasi automaticamente, una maggiore democrazia. In omaggio a questa convinzione, c'è stata molta condiscendenza nei confronti di regimi autoritari (in qualche caso anche di vere e proprie dittature), con il risultato di non avere, spesso e allo stesso tempo, né democrazia né sviluppo.
Oggi, al contrario, molti tendono a dare un'assoluta priorità all'esistenza di istituzioni democratiche quasi che queste (al di là, poi, del loro effettivo radicamento e concreto funzionamento) possano assicurare, da sole e miracolosamente, il miglioramento dell'economia. In realtà, com'è ovvio, i due elementi sono strettamente interdipendenti e, in questa dinamica, il processo democratico, se rispettoso delle peculiarità dei diversi paesi, può essere un elemento importante per consentire un ruolo effettivo della "società civile" e, di conseguenza, un ambiente favorevole alla crescita di un'economia moderna.
Anche nei confronti della "peculiarità africana" si può notare un'analoga tendenza, con l'occidente che è partito da una concezione paternalistica (presupposto culturale del colonialismo e del razzismo) esemplificata dalla visione dell'Africa come "fardello dell'uomo bianco" per poi finire, ai nostri giorni, in un atteggiamento "politically correct" secondo il quale gli africani sono assolti da ogni colpa e le responsabilità per i mali dell'Africa, passati ed attuali, sono tutte attribuite al periodo coloniale e, in ogni caso, ai paesi "ricchi". Di nuovo, invece, è indispensabile un approccio equilibrato. Ai paesi ricchi spetta il dovere di aiutare l'Africa a reggere la sfida posta dalla globalizzazione, a dotarsi delle condizioni per partecipare alla competizione e di creare le condizioni perché il terreno di gioco, e cioè il mercato internazionale, sia praticabile anche per le squadre meno attrezzate. Agli africani, però, spetta l'obbligo di impegnarsi prioritariamente per la pace, la tolleranza e la riconciliazione nei loro paesi. La pace, infatti, è l'unico, vero e indispensabile presupposto per il binomio "sviluppo-democrazia".
Ma anche la pace, a sua volta, è il prodotto di diversi fattori che devono interagire: la pace non è mai il frutto solamente di una buona predicazione, ma di un buon contesto politico, economico, culturale e istituzionale. Gli uomini, in senso generale, non sono mai "buoni" o "cattivi" ma, a seconda del contesto, tirano fuori il meglio o il peggio di sé: la pace non è mai una condizione irreversibile. Come ha scritto, con felice espressione Barbara Spinelli, la "pace è una tregua permanentemente negoziata" e, di conseguenza, ha bisogno di "manutenzione" continua; la pace (come la stabilità e la sicurezza) è una condizione indivisibile, non si può "fare la pace in un solo paese"; la pace, infatti, non è mai unicamente il prodotto di un processo interno allo Stato devastato dalla guerra civile ma, sempre, il frutto di processi che coinvolgono almeno l'area geografica in cui lo Stato in questione è collocato l'obiettivo dei negoziati in ogni conflitto non può essere quello di far sì che tutti diventino improvvisamente amici ma, come primo passo, creare le condizioni perché gli antichi contendenti possono perfino continuare le loro dispute usando, però, le "armi della critica" anziché la "critica delle armi".
Il compito del mediatore (laddove è previsto ed accettato un ruolo di questo tipo) è quello di agire come "honest broker", suggerendo le soluzioni possibili e realistiche che rappresentino un "minimo comun denominatore" in grado di tenere in conto le legittime preoccupazioni ed i legittimi interessi di tutti. E di mettere in atto tutti gli incentivi e le pressioni per favorire l'accordo.
Un esempio è rintracciabile nel processo di pace mozambicano. Il dialogo, il negoziato e la ricomposizione fra le parti in conflitto in quel paese sono maturati, infatti, nel quadro di un mutamento generale del contesto: la fine della contrapposizione est-ovest, la progressiva e reale politica di "non allineamento" del Frelimo, l'emergere di una nuova leadership sudafricana, l'applicazione della risoluzione 435 dell'Onu sulla Namibia, il ritiro dei cubani dall'Angola. E' nell'ambito di questo processo, infatti, che ha potuto e saputo inserirsi un'azione diplomatica italiana efficace e originale, come quello che ha visto in campo, congiuntamente, rappresentanti italiani delle Istituzioni e della società civile.
Ciò che è successo in Mozambico non è ancora compiutamente successo in Somalia. Eppure, la strada che si sta cercando di percorrere è la stessa. Non a caso la Conferenza di Riconciliazione che ha fatto nascere il nuovo Governo di Transizione è stata condotta sotto l'egida dell'Igad, coinvolgendo, cioè, i paesi vicini (Kenia, Etiopia, Gibuti, Eritrea, Sudan e Uganda) senza (o contro) i quali nessuna soluzione durevole è possibile.
Il tentativo è estremamente difficile. Per l'assenza, per 14 anni, di una qualsiasi forma di autorità centrale. Per la frantumazione sociale che si è prodotta in questi lunghi e tragici anni di guerra civile. Per la tendenza storica dei paesi dell'area a scaricare sulla Somalia le loro tensioni interne ed estreme. Per i problemi legati alla crescita del fondamentalismo islamico e alla presenza di cellule terroristiche.
Eppure, qualche passo avanti su questa strada è stato fatto. I diversi gruppi somali possono convincersi che, con l'aiuto internazionale, ora che hanno un parlamento e un governo transitori, possono tornare a collaborare per costruire delle istituzioni comuni. I paesi occidentali possono convincersi che pacificare e stabilizzare in questo modo la Somalia significherebbe anche dimostrare che il fondamentalismo e il terrorismo possono essere contenuti in maniera pacifica.
Siamo appena agli inizi, ma sono proprio questi i momenti più importanti. Fa piacere vedere che la nostra terra e le nostre istituzioni ancora una volta si sono dimostrate sensibili su queste questioni. Occuparsi di Mozambico e Somalia, ieri, oggi e domani, fa bene anche a noi. Non solo perché valorizza una tradizione di dialogo e tolleranza ma anche perché sottolinea come i tempi siano cambiati. Una volta c'erano solo i "trentini nel mondo". Oggi ci può (e ci deve) essere anche un "mondo" nel Trentino.
di Mario Raffaelli, rappresentate del governo italiano per la Somalia
Fonte: Il Trentino, 24 agosto 2005