La guerra? Seduce gli inesperti - intervista a Giulio Giorello

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Si può definire una guerra giusta? E come coniugare l'esigenza di sicurezza e di libertà, di fronte agli attacchi di Londra, Madrid e di New York? In occasione di Dolomiti di Pace, la manifestazione realizzata da Trentino S.p.a., Fondazione Opera Campana dei Caduti e Forum Trentino per la Pace, abbiamo incontrato Giulio Giorello, filosofo, allievo di Ludovico Geymonat, titolare della cattedra di filosofia della scienza all'Università degli Studi di Milano, ospite dell'incontro dello scorso 13 luglio al Forte Busa Verle, sull'altopiano di Vezzena. Abbiamo parlato con lui di guerra, di terrorismo, di sicurezza e di libertà, di Europa e di pace. Alle nostre domande, in una chiacchierata molto piacevole, Giorello ha risposto con analisi limpide e puntuali, solite di chi ama esercitare il pensiero. Passando da Voltaire a Jefferson per arrivare ai giorni nostri.

Oggi, professore, è venuto a parlare in luoghi che furono teatro della Prima Guerra Mondiale. Proprio su questo fronte si scontrarono italiani e austriaci. Era una guerra per la difesa e la conquista della propria patria, dei valori e della identità in cui ci si riconosceva. Si può definire allora una guerra giusta?
Ezra Pound scriveva nei Canti Pisani "non ci sono guerre giuste". Io personalmente la penso allo stesso modo. La guerra, qualsiasi guerra, per la sua crudeltà, per la diffusione di morte e sofferenza che produce non può mai ritenersi giusta. Non credo nemmeno che la guerra è una sublimazione dei nostri sentimenti.

Nemmeno come la concepisce Baricco, esteticamente bella, come abbiamo potuto ascoltare sempre a Dolomiti di Pace la settimana scorsa?
Erasmo da Rotterdam diceva "la guerra seduce gli inesperti". Chi ha conosciuto veramente la guerra non potrà mai definirla bella e seducente. Comunque allo stesso modo, occorre riconoscere il diritto di resistenza, un diritto che appartiene in particolar modo alla storia dell'Occidente e che giustifica il ricorso alle armi per rispondere ad un'aggressione. Penso alla nostra Resistenza, ma anche a qualsiasi altra azione protratta dall'oppresso contro il suo oppressore. Ad esempio anche quella guerra civile così efferata, che gli americani definiscono guerra d'indipendenza, portò ad una esperienza democratica come quella dell'America. Badi bene, mi riferisco all'America di Jefferson, personaggio che ammiro molto, piuttosto che a quella di un Bush junior, tanto per intenderci.

Il diritto alla resistenza d'altro canto non presuppone sempre l'uso delle armi. Si può adottare anche la strategia della nonviolenza, intendiamoci, come ci ha insegnato Gandhi. Ma non sempre questa è possibile. La reazione contro l'oppressore è dettata molto spesso dalle caratteristiche del nemico. Gandhi lottava contro i Britannici. I Polacchi del ghetto di Varsavia contro i nazisti.
Insomma, l'elogio alla resistenza deve essere consapevole del dolore che la chiamata alle armi comporta.

Mi consenta allora una domanda volutamente provocatoria. Dopo l'attacco alle Torri Gemelle gli americani possono a tutto diritto sentirsi degli oppressi e in questo modo giustificare il loro attacco prima in Afghanistan e poi in Iraq.
Ora definire gli americani degli oppressi mi sembra un po' esagerato, francamente. Ci tengo a sottolineare che io non sono quello che adducce ogni problema nel mondo all'imperialismo americano, ma ritengo comunque che occorra per ogni situazione una risposta proporzionale. E quella degli Americani mi pare esagerata. Inventarsi un nemico oltretutto è controproducente. Mi riferisco a Saddam Hussein, tiranno efferato, d'accordo, ma la connessione della sua figura con il terrorismo internazionale si è dimostrata fallace. Ciò dimostra che individuare un capro espiatorio accende una spirale malvagia, per di più controproducente.

Quali sono allora, secondo Lei, le strategie migliori, realistiche e più efficaci, per ristabilire un equilibrio pacifico mondiale?
"Siamo realisti, chiediamo l'impossibile" diceva Lenin. Oggi occorre prima di tutto dare un taglio definitivo alla convinzione perniciosa del conflitto di civiltà. E deve essere l'occidente a fare il primo passo, perché è più forte. Anche se il terrorismo mira a indebolire i gangli vitali delle società occidentali, abbiamo infatti assistito ad una forte capacità di reazione.

Dopo l'ulteriore attacco a Londra, ritorna fortemente il problema della sicurezza in una società aperta. Come conciliare libertà e sicurezza, assi apparentemente contrapposti?
Blair - lo abbiamo visto tutti in questi giorni- ha risposto in modo coraggioso, dimostrando di essere un eccellente capo di Stato. Se fosse successa la stessa cosa in Italia non sono sicuro del pari esito. Si sarebbe dichiarato probabilmente lo stato di guerra. L'Inghilterra ha dimostrato un certo à plomb, nel dichiarare che i conflitti si risolvono comprendendone le cause. Bisogna poi vedere cosa questo comporterà. D'altra parte gli inglesi diedero già prova del loro spirito sotto i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale quando in effetti erano rimasti soli di fronte ai nazisti. Gli inglesi hanno una grande tradizione di controllo dell'autodemocrazia.

Secondo Lei, il G8 appena concluso si è rivelato una doppia sconfitta?
Il terrorismo facendo saltare in aria metro e autobus a Londra hanno fatto danno proprio a quella parte di mondo che dice di difendere e di esserne portavoce. In questo modo i terroristi hanno tolto voce ai problemi che venivano affrontati al G8. Non sono stati di certo al servizio degli "oppressi".

Ma, al tempo stesso, possiamo dire che il G8 è stata una doppia sconfitta anche da un punto di vista degli stati occidentali? Nell'editoriale del Corriere della Sera dell'11 luglio firmato Tommaso Padoa Schioppa si diceva che non risolvere i problemi legati alla fame, all'Africa, significa non risolvere anche i problemi legati al terrorismo e alla sicurezza.
Sono d'accordo nel dire che non si debbano perdere di vista i grandi problemi quali quelli legati all'acqua, all'energia, ai farmaci. Ma personalmente non vedo una connessione diretta tra questi problemi e il terrorismo. Certo, affrontarli aiuterebbe. Sarebbe una risposta etica.

Mi permetta un ultima domanda. Siamo effettivamente in Eurabia?
A questa domanda Le rispondo volentieri. Scriva pure che siamo in Eurabia sin dai tempi in cui l'Islam era il nostro Occidente. Sono convinto che senza l'apporto culturale nella filosofia e nella scienza del pensiero sviluppato nei paesi dell'Islam non ci sarebbe stata la rivoluzione scientifica del '600. Non dobbiamo fare demagogia. Anzi, occorre che valorizziamo l'influenza che c'è stata da un punto di vista culturale dell'Islam in Europa. Poi, io sarei ancora più duro della Fallaci a punire i terroristi islamici. Ma le leggi ci sono. Basta applicarle.

a cura di Denisa Gollino

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