Sudan: l'Europa vigili sulla pace

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Dopo due anni di difficili trattative, il 9 gennaio scorso, nello Nyayo Stadium di Nairobi, davanti a 15 capi di stato, è stato firmato l'Accordo globale di pace di Naivasha tra il governo di Khartoum (nella persona del suo vicepresidente Ali Osman Mohammed Taha) e il Movimento/Esercito di liberazione popolare del Sudan (Splm/a), rappresentato dal suo leader John Garang.

Con quel rito, i due hanno posto la parola "fine" a una sanguinosa guerra che durava ormai da più di 22 anni e che aveva provocato almeno due milioni e mezzo di morti e circa quattro milioni di sfollati e rifugiati. Molte le parole di elogio per questa firma, che era sembrata davvero "una missione impossibile" (l'espressione è del mediatore keniano, il generale Lazaro Sumbeiywo). Il presidente sudanese Omar el-Bashir ha commentato: "L'accordo non è solo un trattato. Esso è anche un nuovo contratto per tutti i sudanesi". Gli ha fatto eco John Garang: "L'accordo cambierà la vita dei sudanesi per sempre".

Soddisfatto Colin Powell, il segretario di stato Usa, alla sua ultima missione in veste di capo della diplomazia americana: "Abbiamo chiuso un oscuro capitolo nella storia del Sudan".Anche il ministro degli esteri italiano, Gianfranco Fini, a Roma, ha dichiarato: "L'accordo è stato raggiunto grazie alla determinazione di entrambe le parti: hanno avuto il coraggio di compiere le scelte giuste per una graduale pacificazione". Con un impegno: l'Italia "è ora pronta a contribuire attivamente alla nuova fase di ricostruzione che sta per aprirsi in Sudan".

Dunque, tutti - o quasi tutti - soddisfatti. Eppure se, da un lato, riconosciamo che ciò che è avvenuto nello stadio di Nairobi è davvero un evento storico, dall'altro, avvertiamo che siamo di fronte a una firma condizionata da troppi "se" e "ma". La prima tappa del cammino di questa pace - cruciale e da compiere entro dieci settimane dalla firma - sarà l'adozione della costituzione provvisoria.

Ma, a distanza di meno di un'ora dalla solenne stretta di mano dopo la ratifica del trattato, Khartoum e Splm/a già divergevano radicalmente su contenuti e significato di questa costituzione. Ci saranno altre tappe, altri obiettivi, e tutti urgenti, cruciali, difficili: il disarmo delle milizie, l'allestimento e l'invio di una forza di pace internazionale, le indagini sulle violazioni dei diritti umani, la ricostruzione...

Un altro motivo di preoccupazione è la sicurezza nazionale. Che ne sarà delle forze ribelli (sia dell'Spla che dei movimenti dei Monti Nuba e del Nilo Blu)? In quale misura potranno diventare truppe regolari? Chi le pagherà? L'accordo affida questo compito al governo del Sud Sudan. Ma chi controllerà le varie milizie armate? Hanno combattuto al soldo dell'uno e dell'altro firmatario. Se non saranno soddisfatte, potrebbero rappresentare un pericolo per l'uno e per l'altro.

E la volontà politica della popolazione? Si dovranno attendere 6 anni e mezzo prima che il popolo possa esprimersi? Si è pattuito che si potranno fare consultazioni (incluse le presidenziali) entro 4 anni, ma le due parti firmatarie decideranno se ce ne saranno le condizioni. La questione è delicata e va tenuta sotto osservazione.

Il fatto che la pace sia stata firmata nel sud proprio mentre è in atto una tremenda crisi nel Darfur, getta un'ombra inquietante sull'intero processo. Ci domandiamo: può un governo che sta conducendo un genocidio in una regione essere un partner credibile per una pace nazionale duratura? Vogliamo anche ricordare che, in passato, i vari regimi arabi di Khartoum non hanno mai rispettato un trattato, soprattutto se contratto con i kafir del sud. E poi ci sono le richieste del popolo del Kordofan, e di quello dei Beja. Troppi "attori" del conflitto sono rimasti fuori dalla spartizione del potere, dei proventi del petrolio e delle cariche militari.

Pioveranno molti soldi sul sud del paese. Si calcola che l'Splm gestirà circa 50 milioni di dollari al mese in aiuti. Come spenderanno questi soldi i responsabili di questo movimento che non ha mai gestito un benché minimo progetto di sviluppo?

La comunità internazionale si è impegnata parecchio, specie negli ultimi due anni, nel sostenere il processo di pace. Gli intenti potrebbero anche non essere stati i più disinteressati (sfruttamento delle risorse naturali nella regione, la cosiddetta "guerra al terrorismo"...), ma sono serviti a portare le due parti al confronto e alla firma.

Ora chiediamo a quella stessa comunità internazionale di continuare a vigilare su questa pace. In particolare, chiediamo all'Unione europea di istituire una commissione permanente - composta di eurodeputati e membri di organizzazioni non governative europee - con il compito di vigilare sul rispetto delle varie clausole dell'Accordo globale. Ma anche sugli aiuti, affinché arrivino davvero alle popolazioni bisognose e non alle solite oligarchie nazionali o regionali. Tutto questo, perché Naivasha 2005 non sia come Addis Abeba 1972.

da Nigrizia - Febbraio 2005

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