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Wto: dieci anni sprecati
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"Lo ripeto - una positiva integrazione della Cina nell'economia globale è la chiave di molte sfide internazionali che stiamo affrontando. Abbiamo bisogno di creatività per affrontare il futuro di fronte a noi. Abbiamo bisogno di soluzioni e di capacità di prevedere e progettare il futuro. Il cambiamento arriverà, che ci piaccia o no; possiamo affrontarlo in maniera positiva per giungere a un lieto fine o ignorarlo a nostro rischio e pericolo".
(Renato Ruggiero, 21 aprile 1997 alla Beijing University)
Guardando, a poco più di tre anni, le foto dei brindisi di Doha si ha la sensazione di un evento che solo ora si inizia a comprendere nella sua ampiezza. In quell'11 novembre 2001 probabilmente non tutti intuirono che per il libero commercio iniziava una nuova era. Certamente non la maggioranza dei nostri politici ed imprenditori; ma neppure le elite dei paesi in via di sviluppo capirono che quella firma apposta nel bunker di Doha ad un protocollo di accesso di 15 mila pagine avrebbe avuto impatti devastanti sui loro paesi dal momento che non sarebbe più stato possibile bloccare arbitrariamente le esportazioni cinesi da parte degli altri 147 paesi membri.
Per Pechino quella firma ha ratificato l'ingresso nel tanto osannato "level playng field" (letteralmente campo di gioco allo stesso livello) in cui nel sogno neoliberista tutti i concorrenti possono giocare insieme senza discriminazioni.
Sino a poco tempo fa erano solo i paesi del sud del mondo a maledire questa sorta di ipotetico campo di calcio in cui tutte le imprese mondiali dovrebbero agire garantite dalle stesse regole. Per spiegarsi facevano similitudini come la seguente: "il commercio internazionale fra il mio paese e l'occidente è come la gara fra un'antilope e una giraffa per un cibo posto in cima ad un albero: potete metterli allo stesso livello ma la situazione non sarà ancora equa". Ora lo gridano anche i nostri politici ed imprenditori (questi ultimi con qualche pudore in più), affermando che un unico piano di gioco con la Cina non piace molto all'Italia e che la liberalizzazione non è da farsi se tutti non applicano le stesse regole, soprattutto riguardo ai diritti dei lavoratori.
Che si possa avviare una virtuosa collaborazione fra nord e sud per invertire il percorso delle politiche commerciali degli ultimi due decenni? Utopia pura, ma oltreconfine si è timidamente avviato un dibattito sul "free trade" e sulla teoria del vantaggio comparato di David Ricardo che suggeriva ad ogni nazione di specializzarsi nel produrre ciò che meglio sapeva fare, ricorrendo alle importazioni per il resto. Su questa strada ogni paese avrebbe goduto della propria fetta di torta della ricchezza mondiale.
Molti economisti hanno fatto notare da tempo che tale teoria richiede dei presupposti inesistenti nella realtà, Stiglitz ha vinto un Nobel mettendo in luce le asimmetrie del mercato e dimostrando che l'assenza di condivisione delle informazioni rende impossibile per il mercato gestire la profetizzata miglior allocazione delle risorse. Ai tempi di Ricardo molte cose erano ben diverse da oggi, basti pensare che veniva ignorato totalmente il settore dei servizi che oggi produce circa il 70% del prodotto interno lordo delle economie industrializzate. Negli USA l'accelerazione delle delocalizzazioni produttive nei paesi asiatici ha cominciato a far dubitare della sostenibilità di un sistema di mercato aperto come quello professato dai free-traders. Lo stesso economista Paul Samuelson, da sempre sostenitore del libero scambio, ha ammesso che qualcosa non funziona e un vivace dibattito è scaturito da un articolo pubblicato in gennaio sul New York Times e sull'International Herald Tribune dal senatore Charles Schumer e da Paul Craig Roberts , membro dell'amministrazione Reagan, in cui contestano un altro punto della teoria neoliberista, quella per cui i fattori di produzione non potrebbero essere facilmente spostati da un paese all'altro. Schumer e Paul Craig Roberts affermano che se un tempo ciò era vero ora possono essere rilocalizzati dove sono più produttivi, ad esempio nei paesi dove il lavoro costa poco e non è sindacalizzato.
La conclusione dell'articolo sconfessa l'abusata formula per cui il free trade sarebbe un gioco di tipo "win-win", dove tutti vincono e nessuno perde, ammettendo che "alcuni paesi vincono ed altri perdono", proprio quello che negli ultimi anni hanno sostenuto trequarti del pianeta.
Da noi purtroppo la discussione appare miope e limitata alla battaglia sui dazi, spesso in una confusione totale di cosa sia un dazio, cosa sia il blocco conseguente a una misura di salvaguardia e quale la differenza di un aumento tariffario definito in seguito ad un procedimento antidumping. L'aumento unilaterale di un dazio sull'importazione di una merce dall'estero è in totale contraddizione con le clausole WTO, potrebbe essere presa da un paese ricco solo sapendo che si tratterà di una misura temporanea perché l'immediata reazione dei paesi concorrenti lo obbligherà a far marcia indietro, come è accaduto agli USA sull'acciaio. Si tratta di una operazione più di politica interna (accontentare momentaneamente forti pressioni domestiche) che di politica commerciale. Le clausole di salvaguardia sono previste dall'Accordo GATT e stabiliscono che un paese in seguito ad un abnorme aumento delle importazioni da un paese estero che minacci seriamente i produttori nazionali, possa bloccare queste importazioni tramite l'aumento dei dazi su questi prodotti o tramite la fissazione di limitazioni quantitative.
In più, nel protocollo di adesione della Cina è presente una clausola specifica per il tessile che stabilisce che un paese, in seguito ad abnorme crescita delle sue importazioni da Pechino, possa aumentare i relativi dazi del 7,5%, ma dopo un periodo di monitoraggio di almeno dodici mesi e per la durata di un anno. Questa clausola varrà sino all'anno 2008. Infine, gli incrementi dei dazi previsti dalle clausole anti-dumping (Articolo VI del GATT 1994 e relativo accordo di implementazione, comunemente conosciuto come "Accordo Anti-Dumping ") si possono attuare dopo una sorta di investigazione che dimostri che un paese sta esportando sottocosto. Queste misure sono ben conosciute dai paesi occidentali che le hanno ampiamente utilizzate per difendersi da quella che consideravano concorrenza sleale da parte dei PVS nei settori in cui avevano interessi da difendere. Tanto che, sempre a Doha, nel 2001 una delle due grandi concessioni attribuite al negoziatore americano fu l'impegno a rivedere l'accordo Antidunping in modo da renderlo più chiaro e meno sfruttabile dagli occidentali come misura protezionistica. Di quell'impegno si è persa traccia nel tortuoso percorso del ciclo di negoziati attualmente in corso a Ginevra.
La scelta che si prospetta a noi italiani è insomma riferita agli ultimi due casi, misure di salvaguardia e antidumping, ma si tratta di strade che non sono immediate e che richiedono tempo; per entrambi c'è il problema, non secondario, che in sede WTO l'Italia non agisce direttamente ma attraverso il Commissario Europeo al Commercio, l'inglese Peter Mandelson, e che occorre mettere d'accordo 25 paesi diversi, molti dei quali privi di industrie del settore e pertanto ben lieti di sfruttare il calo dei prezzi dei prodotti cinesi (ci si riferisce ai paesi del nord Europa e alla Gran Bretagna).
In questi giorni Mandelson sta raccogliendo le proteste del settore, concretizzatesi con la presentazione, il 9 marzo, da parte dell'associazione che riunisce le industrie di tessile ed abbigliamento europeo, EURATEX, della richiesta formale di applicare la clausola di salvaguardia specifica per il settore tessile (articolo 241 del protocollo di accesso al WTO della Cina) a 12 categorie di prodotti:
. CATEGORIA 5: Jerseys e pullovers lavorati a maglia;
. CATEGORIA 6: Pantaloni e shorts di lana, cotone, o di tessuto
sintetico;
. CATEGORIA 7: camicette da donna in lana, cotone o sintetico
. CATEGORIA 12: collants, calze, calzini ecc
. CATEGORIA 15: soprabiti, impermeabili per donna
. CATEGORIA 16: abiti maschili
. CATEGORIA 17: giacche e giubbotti maschili
. CATEGORIA 26: abiti femminili
. CATEGORIA 31: Reggiseni
. CATEGORIA 78: Accessori - altro
. CATEGORIA 83: Altre categorie di soprabiti, giacche o giacconi
. CATEGORIA 117: Prodotti intessuti di lino o di ramie
Secondo EURATEX, il totale dell'export cinese nell'Unione Europea è cresciuto del 46,5% in valore (confrontando i dati del gennaio 2004 con quelli del gennaio 2005). Nelle 12 categorie indicate l'aumento in termini di volume è stato del 625%. L'export cinese di maglie e camicette da donna è triplicato in volume (+244%) con una caduta dei prezzi del 41%. Le esportazioni di reggiseni sono salite del 493%, mentre i prezzi sono scesi del 36%.
Tira la stessa aria nell'altro grande mercato mondiale: gli Stati Uniti d'America. Secondo lo stesso governo cinese (nota del 9 marzo 2005) nel mese di gennaio di quest'anno le esportazioni negli USA sono aumentate del 75%.
In gennaio, gli statunitensi hanno importato più di 1,2 miliardi di dollari in tessile ed abbigliamento a fronte dei 701 milioni del gennaio 2004. Per alcuni prodotti l'aumento percentuale supera il 1.000%. L'industria statunitense annuncia 12.200 posti di lavoro persi nel solo mese di gennaio (fonte Bureau of Labor Statistics). Ma per i consumatori americani nulla è cambiato perché come ha dichiarato Andrew Grossman della GAV, (una compagnia che disegna e produce per marchi molto noti come Calvin Klein), c'è incertezza sulla situazione e sugli sviluppi futuri e pertanto l'abbassamento dei prezzi non viene trasferito ai consumatori.
Insomma tutte le nefaste previsioni fatte alla vigilia dello smantellamento delle limitazioni quantitative sembrano avverarsi. E a piangere non sono solo i nostri imprenditori ma i lavoratori di gran parte dei paesi in via di sviluppo fino ad ora dotati di imprese tessili e di abbigliamento. Molte fabbriche stanno chiudendo perché molti grandi produttori di Hong Kong che avevano fabbriche sparse in diversi paesi per "sfruttare" le rispettive quote (superando così i limiti assegnati a quelle cinesi), stanno riportando in Cina la produzione. Altri paesi come il Bangladesh hanno visto scendere il loro export nel primo mese post quota del 21,34%.
Tornando al nostro paese, maggior produttore europeo e perciò paese maggiormente colpito dalla crisi, gli imprenditori parlano anche di etichetta obbligatoria per indicare l'origine della merce e di rispetto da parte cinese delle regole sui labour standard: libertà di attività sindacale; contrattazione collettiva; eliminazione del lavoro forzato; non discriminazione di sesso; condizioni minime di lavoro garantito; fine del lavoro minorile.
Di questi standard si è spesso parlato anche in sede WTO ma i PVS li hanno sempre rifiutati bocciandoli come misure protezionistiche occidentali, il che è assolutamente vero. L'occidente ha in questo senso la coscienza ampiamente sporca, poiché ben sapeva che una proposta vera e non solo di facciata, avrebbe dovuto essere presentata con una offerta compensativa significativa come ad esempio la resa sul "fronte agricolo". Qualcuno ora timidamente inizia a dire che per molti PVS la proposta di labour standard in cambio di concessioni di mercato in altri settori sarebbe allettante visto che anch'essi si trovano a competere, in condizioni peggiori rispetto a noi occidentali, con Pechino. Ma si tratta di orizzonti lontani.
La verità è che stiamo sperimentando quegli effetti collaterali dell'apertura dei mercati che la maggioranza degli abitanti del pianeta lamenta da almeno dieci anni e che sinora abbiamo totalmente ignorato. La mancanza di standard lavorativi in gran parte del mondo non è una scoperta dell'ultima ora, l'abbiamo sfruttata e se fossimo coerenti non dovremmo chiedere la messa al bando solo del "made in China" ma di tutti i prodotti di imprese occidentali che traggono origine dal lavoro di 43 milioni di persone che lavorano nelle zone di produzione per l'esportazione e sarebbe curioso vedere quali famosi brand si salverebbero. Sull'etichettatura dei prodotti nel 1997 fu messa in piedi la campagna "Acquisti Trasparenti" per ottenere dal parlamento italiano l'approvazione di una legge che favorisse il rispetto dei diritti dei lavoratori all'estero e il diritto dei consumatori italiani a sapere quali condizioni di lavoro ci sono dietro quello che viene venduto in Italia. Tre anni di lavoro andarono in fumo con lo scioglimento anticipato delle Camere. Nessuno dei politici oggi in prima fila per i dazi se la ricorda? O si accettano le regole del gioco o si cambiano. A questo dovrebbero pensare imprenditori, politici e cittadini tutti. Il WTO non è nato ieri ma dieci anni fa, sulle ceneri di un GATT datato 1948.
Supachai Panitchpakdi, direttore generale del WTO, parlando ieri a New York ha definito questi primi dieci anni "un successo", per qualcuno certamente, ma per la maggioranza dei lavoratori del mondo c'è ben poco da festeggiare. Questo decennale può essere invece l'occasione buona per porre fine all'eccessiva enfasi sul ruolo del commercio come motore di sviluppo, facendolo rientrare nella categoria dei mezzi, rispetto a quella dei fini. Sono i diritti a dover essere liberalizzati e a non dover incontrare più barriere; il commercio va regolato per servire a questo scopo. E' inutile accanirsi contro i paesi emergenti nell'economia globale, che hanno il diritto di affacciarsi sulla scena mondiale e partecipare al dibattito su quali regole fissare per gli scambi commerciali; ma nonostante ciò ci sono diritti fondamentali universali che devono valere per tutti e che le istituzioni economiche devono rispettare. Di fronte ad una crisi evidente del "fondamentalismo neoliberista" è necessario affrontare con serietà i problemi strutturali dell'economia internazionale e non nascondersi dietro rivendicazioni di parte.
di Roberto Meregalli (Beati i costruttori di pace - Retelilliput)
Approfondimenti: Tradewatch - Osservatorio sul commercio internazionale promosso da Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Centro Internazionale Crocevia, Gruppo di Appoggio al Movimento Contadino Africano, Mani Tese, ReteLilliput, Roba dell'Altro Mondo.
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10 - 16 Aprile 2005 Settimana di Mobilitazione Globale
www.gwa2005.org
NO all'imposizione di accordi commerciali ingiusti, liberalizzazioni e privatizzazioni indiscriminate! SI al diritto di ognuno al cibo, all'acqua, alla salute, ad una vita dignitosa ed all'istruzione!