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Votare sì: un segnale forte per il futuro
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Che la democrazia non goda di buona salute, lo sanno tutti. Una delle cause di questa crisi risiede sicuramente nel logorio degli strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita politica. La nostra Costituzione ci ha dato in mano due schede, quella per le elezioni e quella per il referendum abrogativo (e poi, in determinati casi, per quello confermativo). Ambedue queste schede sono sgualcite.
Parlando di referendum il problema, almeno dagli anni Novanta in poi, risulta sempre essere il quorum. Dal 1990 ci sono state 11 chiamate alle urne (per pronunciarsi su una cinquantina di quesiti): in 7 di esse non si è raggiunta la percentuale del 50% più uno dei votanti e quindi la consultazione non è risultata valida; in altre 4 invece si è superata la soglia necessaria. È accaduto (poche volte in realtà) che, in una stessa tornata, gli esiti dei singoli quesiti fossero differenziati: nella consultazione dell’11 giugno 1995, in cui si raggiunse il quorum, su 12 quesiti, in 5 prevalse il Sì, in 7 invece il No. Nei referendum più recenti invece, a prescindere dal numero dei votanti, i Sì hanno sempre segnato percentuali “bulgare”, segno che quanti volevano opporsi al quesito, invece di votare No, hanno scelto la via dell’astensione, con l’intenzione di far fallire il referendum per non raggiungimento del quorum.
Possono sembrare ragionamenti troppo tecnici, ma in realtà sono pieni di sostanza politica. Andare o non andare a votare? È legittima non solo l’astensione ma pure la campagna astensionistica di interi partiti o di leader influenti di governo o addirittura di rappresentanti istituzionali? Piano piano i contenuti concreti svaporano, spesso a causa della complicatezza del quesito, ma ancora più spesso per la tendenza italiana a buttare tutto in una contrapposizione tra partiti. Un’alta affluenza a chi converrà? E via discorrendo.
La sostanza rischia allora di scomparire, anche perché troppe volte il legislatore ha poi tradito gli esiti referendari. Quindi i cittadini sono sfiduciati, completamente sfiduciati, dall’efficacia reale del proprio voto. Meglio starsene a casa o, come si dice, “andare al mare”. Ma l’esito è devastante: meno partecipazione, più qualunquismo, meno dibattito. E soprattutto un lento, inesorabile, inquietante declino appunto della fiducia stessa nella democrazia.
Andare a votare resta più che un dovere, un’opportunità. Disertare le urne, pure per la legittima contrarietà al quesito, significa incentivare questo declino. Se la Costituzione prevede che alcune Regioni possano richiedere un referendum, questa procedura va rispettata fino in fondo e il cittadino deve rivendicare la possibilità di esprimere la propria idea.
Entrando nel merito della consultazione di domenica, essa riguarda un problema a prima vista marginale. Il quesito vuole abrogare una norma che permette alle concessioni già in essere per l’estrazione degli idrocarburi entro le 12 miglia marine dalla costa, alla loro scadenza, di poter venire rinnovate fino all’esaurimento del giacimento.
Sfido chiunque ad aver capito tutto alla prima lettura di queste ultime righe. Si incrociano vari piani: rapporti istituzionali, ruolo delle grandi imprese degli idrocarburi, aspetti ambientali, paesaggistici, economici. Per esempio, le concessioni per queste estrazioni in mare chiamano in causa anche la potestà delle Regioni che appunto si sentono scavalcate dal governo. A livello pratico è abbastanza controverso l’effetto di un Sì al referendum. Non si concederanno più proroghe (che sarebbero praticamente “infinite”) alle licenze delle “trivelle” che oggi estraggono sottocosta in zone vietate da un’altra legge, ma non ci ritroveremo affatto senza gas. Altre posizioni, come quella di Romano Prodi (che voterà No), invece sostengono che la “sicurezza energetica” del Paese va tutelata. Così pure gli investimenti già in essere.
Concretamente cambierà poco o nulla, anche perché l’esito non è quasi mai cogente. Viene interpretato, insabbiato, reso vano da ingarbugli vari. Questa è la realtà. Ciò non nega la valenza di un voto perchè il segnale di tendenza sarà netto. È giusto continuare imperterriti sulla stessa strada, quando ai vertici internazionali sul clima tutti annunciano e sottoscrivono in maniera solenne di procedere con un’inversione di rotta? Avanti tranquilli con gli idrocarburi nonostante i cambiamenti climatici? Indirizzare gli investimenti ancora su questo settore (che tra 30 anni sarà superato) oppure incentivare al massimo le energie rinnovabili? L’estrazione di combustibili fossili dai nostri mari è realmente un’opportunità? Sono domande non facili. Ma alla fine forse occorre solo domandarsi: vogliamo dare un segnale di lungo periodo per incamminarci verso la sostenibilità ambientale?
Per quanto mi riguarda, la risposta a quest’ultima domanda è affermativa.
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.