Venezuela, i resoconti oltre la propaganda

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Il mese di aprile ha visto accendersi a livelli esasperati la crisi venezuelana, nell’inquietante indifferenza di tanti mezzi di comunicazione del Vecchio Continente. Una crisi scoppiata ancora nel 2013, in seguito agli strascichi di una crisi finanziaria ancora irrisolta, e legata in buona parte alla mancanza di un’infrastruttura produttiva (non petrolifera) diversificata e una fase di industrializzazione mai veramente decollata. A questi fattori si aggiungono una scarsitá generalizzata di prodotti di prima necessitá, un aumento della disoccupazione e soprattutto, dal 2015 in poi, una pesante ricaduta del prezzo del crudo, principale esportazione venezuelana, che hanno catapultato il paese a una profonda crisi, dapprima economica, poi politica e sociale. Le notizie sanguinarie lanciano messaggi sconcertanti e parlano fin qui di 44 morti, centinaia di feriti e quasi 2 mila arrestati dall’inizio dell’ondata di scontri cruenti tra manifestanti anti-governativi e forze dell’ordine, in quella che da piú di mese ha assunto le sembianze di una guerra civile.

Le tensioni sono di fatto avvampate all’indomani del 29 Marzo, giorno in cui la Corte Suprema, controllata dal governo, ha revocato i poteri all’Assemblea Nazionale, composta in larga maggioranza da esponenti dell’opposizione, esautorando in questo modo le funzioni del Parlamento, ultimo baluardo democratico del paese. Maduro, per mano della sua Commissione Elettorale, ha pure avuto la sfacciatezza di impedire il referendum sulle elezioni anticipate del Capo dello Stato, che aveva ottenuto il numero di firme necessarie, blindando cosí il suo mandato fino al 2019. Della settimana scorsa la proposta di Maduro di eleggere una nuova Assemblea Costituente, giá respinta dal fronte dell’opposizione che paventa l’ennesimo tentativo di golpe. Siamo all’apice del discorso propagandistico del presidente, non vi sono condizioni per processi democratici regolari e la gente, la maggioranza del paese a questo punto, ha bisogno di essere ascoltata. Le condizioni di vita dei venezuelani sono sempre piú critiche, gli scaffali dei negozi sempre piú desolanti, che convivono con i prezzi folli del mercato nero e l’assenza quasi totale di medicinali nelle farmacie. I neonati che dormono nelle scatole di cartone degli ospedali e le file interminabili fuori dai supermercati sono l’immagine plastica del Venezuela odierno. Senza speranze, le persone si sono riversate nelle strade a protestare, giovani e anziani, e la polizia ha iniziato la sua repressione. La polizia non esita piú, spara. Solo pochi giorni fa é stato ucciso un leader studentesco di 28 anni. D’altronde quando il presidente arriva a sostenere - e siamo nel 2017 - che la crisi economica “è il prodotto di una guerra economica dell’imperialismo occidentale, quegli stessi imprenditori che appoggiano l'opposizione per creare malcontento popolare e incoraggiare un colpo di stato contro di lui”, e che “vinceremo la guerra contro l’oligarchia!”, ci si rimane un tantino perplessi. E sulle accuse rivolte al Partito Socialista Unito, come facilitatore della rotta privilegiata del narcotraffico tra Colombia e Stati Uniti, risponde: “si tratta di una manovra americana per destabilizzare il socialismo bolivarista e far tornare al potere i fascisti”. Un pó piú che perplessi.

Il disastro venezuelano in realtá ha radici nel modello di economia pianificata, espressione massima di quel socialismo latino del XXI secolo, incarnato per 14 anni da Hugo Chavez, ed ora nelle mani di un presidente tanto limitato quanto demagoga come Nicolás Maduro. La mancanza di dinamismo nel programma politico, sommato al ruolo utopico dello Stato come motore dell’economia. Un modello anacronistico, che negli anni ha soffocato l’economia di uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo, e ha letteralmente eroso il potere d’acquisto dei suoi abitanti, con un’inflazione destinata ad incrementare al 720% nel 2017, secondo le stime FMI, la piú alta del mondo. Tutto ció accompagnato dalla crisi del settore agricolo, le pleonastiche controversie politiche e una forte perdita di valore della moneta nazionale - il bolivar - in rapporto al dollaro. Mentre l’ultima brillante notizia é l’annuncio, in commemorazione de la festa internazionale del lavoro, di un aumento del 60% del salario minimo mensile, che sale a circa $ 90 al più alto tasso ufficiale, di fatto $ 15 alle quotazioni del mercato nero o “quotidiano”. Ridicola consolazione di quella che é stata una gestione fin qui fallimentare, incapace di tamponare una delle peggiori crisi economica, migratoria e umanitaria che ha sofferto il paese.

In Ecuador, le notizie del Venenzuela arrivano come un’eco lancinante, risuonano per le strade e nell’accento di tanti venditori ambulanti, in un senso di malincolica impotenza. I due paesi non sono distanti. In Ecuador, nonostante le ridotte dimensioni, sono giá stati accolti circa 500 mila immigrati venezuelani solo negli ultimi cinque anni. Ció nonostante, nelle fasi piú scottanti della recente campagna elettorale, in Ecuador, c’é chi si é dilettato nell’accostare la situazione venezuelana all’attuale momento (complicato) ecuadoriano. É stato infatti un tema ampliamente enfatizzato dal candidato Guillermo Lasso e dai suoi fedeli del movimiento CREO-SUMA, con l’obiettivo di minare la candidatura di Lenin Moreno (vincente al ballottaggio del 2 di aprile) e fare leva sull’enorme paura che generano i fatti di Caracas nell’immaginario collettivo. I piú agguerriti hanno iniziato ad affermare che i due paesi stessero vivendo crisi economiche e sociali comparabili, data la matrice socialista, per di piú “corrotta”, dell’impianto economico e il crescente ricorso all’indebitamento pubblico per finanziare la spesa pubblica. Fortunatamente, peró, a prescindere dalle simpatie politiche, le cifre smentiscono simili esternazioni. Dico fortunatamente, ma provo solidarietá, come tutti i latinoamericani, ai vicini hermanos venezolanos. Innanzitutto parliamo di un’economia, quella ecuadoriana, dollarizzata e dotata di stabilitá monetaria, che registra un’inflazione del 0,2% a febbraio 2017 (42,5% in Venezuela nello stesso periodo). Il tasso di disoccupazione arriva al 5,2% in Ecuador nel 2016, mentre la nazione bolivarista sfoggia un preoccupante 18,1%. In termini di povertá monetaria, il confronto é 22,9% a quasi 70% della popolazione. Per non parlare della sicurezza sociale, dove la differenza é altrettanto profonda: l’Ecuador ha un tasso di omicidi di 5,6 casi ogni 100 mila abitanti, il Venezuela ben 91, con Caracas da qualche anno in cima alle classifiche di cittá con maggiori assasinii.

L’Ecuador ha saputo evolvere il modello obsoleto socialista, dinamizzandolo, creando un ambiente favorevole all’innovazione e allo sviluppo tecnologico. I proventi del petrolio sono stati investiti in salute, ricerca, infrastrutture stradali, istruzione e sicurezza. Il modello di esportazione primaria é stato sostituito da un’oculata produzione di beni a piú alto valore aggiunto e una diversificazione delle esportazioni, in netto contrasto con quanto avvenuto nel modello venezuelano. Certo, si tratta di un processo lungo, che richiede grandi sforzi da parte dello stato, ma finché Maduro resta il capo questa transizione sará ostacolata.

In questi giorni si aggiunge anche l’appello di Papa Francesco il quale invoca la fine delle violenze e il rispetto dei diritti umani, auspicando pronte soluzioni negoziate. Il dialogo non sta funzionando in Venezuela, data la riluttanza a dialogare del caudillo. Ma mi piacerebbe sapere, quando, nella storia, ha funzionato l’uso delle armi?

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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