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Uomini e grandi animali. Convivenza impossibile?
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Immagine: M. Rossi
Trentino-Alto Adige. Un anno fa quasi 8mila persone della Val di Sole, Val di Pejo e Val di Rabbi votarono in maniera plebiscitaria al referendum consultivo che “la presenza di lupi e orsi in quei territori costituisce un pericolo per a sicurezza, un danno per l’economia e per la salvaguardia di usi, costumi e tradizioni locali”. Sempre in Provincia di Trento, un analogo referendum si è appena chiuso nei 25 comuni delle Giudicarie con un risultato pressoché scontato anche se con un’affluenza non massiva. E ancora un recente sondaggio Astat, diffuso dalla Provincia autonoma di Bolzano, rivela che il 72% degli altoatesini considera negativamente il ritorno dei lupi e il 77% quello degli orsi.
La coesistenza è possibile secondo il movimento ambientalista, impossibile per parte della politica e della cittadinanza. Che la strumentalizzazione dei disagi e della preoccupazione della cittadinanza sia volta a coprire i ritardi nella comunicazione e nella formazione? È possibile tanto come una sottostima dei problemi di una convivenza con i grandi carnivori.
Tutto il mondo è paese.
Non solo in Italia, e non solo in Europa, la convivenza uomo-animale è fonte di attenzione per l’opinione pubblica.
Udawalawe National Park, Sri Lanka. Pieno agosto e via vai di turisti stranieri per un classico safari nel parco naturale famoso per la forte presenza di elefanti. All’ingresso del parco, le jeep attraversano un drappello di manifestanti che distribuiscono volantini e segnalano con dei cartelli l’oggetto della loro preoccupazione: il benessere degli elefanti. “Anche se gli elefanti non fanno guadagnare dollari, li vogliamo vivi”. “Basta uccidere all’interno delle riserve naturali”. “Sii la voce di chi non ha voce”. Secondo stime FAO, gli elefanti asiatici si sono dimezzati dai circa 100mila agli inizi del XX secolo ai 45mila attuali.
In Sri Lanka il “conflitto uomo-elefante” è particolarmente elevato in quanto la popolazione condivide il 70% del territorio abitato con gli elefanti. Il Paese registra il secondo numero più alto al mondo di vittime umane causate dagli elefanti. Si stima, inoltre, che ogni giorno venga ucciso in Sri Lanka almeno un elefante: un triste primato in Asia. La principale causa della loro morte è la perdita dello habitat naturale a favore dell’agricoltura, insieme alla difesa dei campi da parte degli agricoltori, talvolta anche con l’uso di armi. Vi contribuiscono anche ferite letali provocate da trappole destinate ad altri animali selvatici, come i cinghiali, recinzioni altamente elettrificate attorno ai campi e incidenti stradali causati da auto o treni, tutti effetti dell’espansione delle aree abitate e delle infrastrutture, spesso senza la presenza di corridoi per il passaggio della fauna. La soluzione dettata dagli animalisti per preservare allora gli elefanti? Guidare a bassa velocità nei parchi naturali, mantenere la distanza di sicurezza ed evitare i gruppi di elefanti; non mangiare carne di selvaggina, in quanto le trappole poste per catturare gli elefanti possono danneggiare gli elefanti; non nutrire gli elefanti al lato della strada; non acquistare avorio o altro prodotti della fauna selvatica.
In altre parti del mondo i conflitti uomo-animale riguardano le tigri in India, i leoni o gli elefanti nel continente africano e ancora gli orsi grizzly in America Settentrionale ma anche specifica città, dagli sciacalli a Tel Aviv ai coyote a Chicago e ai cinghiali a Roma.
L’aumento dei conflitti tra uomo e fauna selvatica non è un fenomeno isolato né passeggero. Alla base c’è la crescita costante della popolazione umana e la conseguente riduzione degli spazi naturali. Strade, coltivazioni, infrastrutture e nuove aree abitative erodono gli habitat, costringendo animali come lupi, orsi o elefanti a spingersi sempre più vicino ai centri abitati.
A questo si somma il ruolo del cambiamento climatico, che accelera la perdita di territori idonei alla sopravvivenza delle specie selvatiche. Siccità e incendi riducono le risorse disponibili, mentre le nevicate irregolari e il ritiro dei ghiacciai modificano gli ecosistemi montani, spingendo i grandi carnivori a cercare nuove aree di caccia o di rifugio. La scarsità di cibo, amplificata dall’alterazione dei cicli naturali, porta gli animali a entrare in conflitto diretto con l’uomo, dall’agricoltura al turismo.
C’è poi un paradosso difficile da ignorare: più una specie è minacciata, più si investe nella sua protezione. Ma la conservazione, se efficace, aumenta il numero di esemplari e con essi la possibilità di incontri ravvicinati e scontri. La coesistenza forzata diventa allora il prezzo del successo delle politiche di tutela. Un dilemma che si ripresenta in contesti diversi del pianeta, e che solleva una domanda cruciale: fino a che punto siamo disposti ad accettare i rischi di vivere fianco a fianco con i grandi animali selvatici?
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.