Una giornata senza di noi (gli immigrati)

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Immaginate: improvvisamente i media italiani diffondono la notizia di una nuova strategia per l’immigrazione, che muta in modo sostanziale la legge “Bossi-Fini” in vigore e concede la cittadinanza a tutti gli immigrati presenti nel Paese. E ancora: le forze dell’ordine lanciano una maxi operazione per arrestare i cosiddetti “luogotenenti”, che assoldano per pochi euro al giorno gli immigrati per la raccolta dei pomodori e simili mansioni, e con essi chiunque abbia sfruttato e sottopagato i lavoratori stranieri, spesso a sprezzo della loro sicurezza. Se non riconosceste in questa descrizione un breve cortometraggio di Daniele Luchetti che interpreta a suo modo l’articolo 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sul diritto di ciascun individuo alla cittadinanza, pensereste di essere nel bel mezzo di una colossale candid camera. Mentre cercate una telecamera nascosta, potreste imbattervi però quest’oggi in manifestazioni di immigrati scesi in piazza anche insieme ad “autoctoni” proprio per denunciare le condizioni di razzismo istituzionale in cui vivono (ossia quelle politiche, norme e prassi amministrative che perpetuano, rinforzano o producono disuguaglianza ai loro danni), e per rivendicare i propri diritti in senso ampio. A cominciare dal diritto alla cittadinanza, specie per le seconde generazioni.

Uno sciopero giunto alla sua quarta edizione da quando, nel 2010, il 1° marzo è stato designato come la giornata internazionale di protesta degli immigrati. Un “giorno senza di noi”, questo il motto che ha guidato l’iniziativa nella sua ideazione, nell’intento di far riflettere l’opinione pubblica sull’apporto determinante dei migranti alla tenuta e al funzionamento della società italiana. Gli esempi più evidenti riguardano la delega pressoché totale della cura degli anziani alle “badanti”, così come la composizione della manovalanza nell’edilizia. Anche il settore della ristorazione “con i piatti della tradizione italiana”, primi fra tutti la pizza, è affidato a cuochi sempre più stranieri. Cosa davvero accadrebbe se i milioni di immigrati che vivono e lavorano in Italia, se non in tutta Europa, decidessero di incrociare le braccia o semplicemente di andarsene?

Una provocazione irreale finché il Belpaese continuerà a offrire prospettive di vita migliori rispetto allo Stato di origine. Ma se questa condizione imprescindibile venisse meno? È dello scorso gennaio l’inchiesta del Financial Times che ha rilevato un flusso di rimpatri o di trasferimenti di immigrati da un’Italia colpita dalla recessione. Secondo il prestigioso quotidiano economico, sarebbero soprattutto gli imprenditori cinesi a tornare a casa, in un momento di pieno sviluppo del Paese, o a emigrare in Canada. Ma non solo loro. L’Italia infatti non costituisce più un Paese di immigrazione, ma è tornata a essere terra di emigrazione: nel 2011 sono arrivati 27mila stranieri e se ne sono andati 50mila italiani. Gli effetti della crisi economica stanno pesando fortemente sui più deboli e quindi anche sui migranti, che se ne vanno a cercare fortuna altrove. Marco De Ponte, Segretario Generale di ActionAid, ha fotografato il lavoro degli immigrati in Italia con 5 “p”: “precario, poco pagato, pesante, pericoloso e penalizzato socialmente”. Se quindi la crisi economica è sicuramente la prima causa di tale esodo, a questa si associa la condizione degli immigrati di essere percepiti a livello sociale principalmente come forza lavoro, invece che innanzitutto come persone. Uno sforzo per garantire loro maggiori diritti, cercando così di diminuire l’esclusione sociale, dovrebbe essere ora una priorità nel Paese.

Tale situazione è denunciata dalle richieste degli immigrati, uniti nei Comitati Primo Marzo, del diritto a vedersi riconosciuta la propria identità personale e sociale, del diritto a esercitare la libertà di scelta, del diritto alla diversità. La mobilitazione quest’anno chiederà a gran voce il diritto alla libera circolazione e quello a scegliere il luogo in cui vivere. Una legge organica sull’asilo politico e la proroga dell’emergenza Nord Africa. Una nuova legislazione in materia di immigrazione che abroghi la Bossi-Fini. La chiusura di tutti i Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) e la cancellazione definitiva del reato di clandestinità. La cittadinanza per tutti i figli di migranti nati o cresciuti in Italia. Il diritto di voto amministrativo per gli stranieri residenti. Richieste che nel complesso andrebbero a sanare quella condizione di razzismo istituzionale che gli immigrati vivono nell’Italia di oggi, subendo inique discriminazioni di legge. È infatti anche il razzismo e una cultura di violenza che addita nei migranti la causa di molti dei problemi economici e sociali dell’Italia, uniti alla mancanza di diritti, a spingere tanti immigrati a preferire altre “terre promesse”.

Miriam Rossi

Commenti

Riconoscimento del diritto alla libertà di movimento a prescindere .

Penso non sia molto praticabile pretendere un diritto del genere ..... a prescindere . Nella nostra storia di emigranti abbiamo sempre circolato con il documento personale di riconoscimento ( altrimenti dovevamo tornare indietro con lo stesso piroscafo ) . Nell'area UE è in vigore il trattato di shenghen che prevede il libero movimento dei cittadini degli stati che vi hanno aderito mentre è tassativo il diniego per chi si presenta alle frontiere senza documenti. Ora il problema è ......come pretendere il libero movimento di persone migranti che NON hanno alcuna volontà di essere identificati ?
Comunque , nell'articolo , noto con dispiacere che non c'è alcuna articolazione dei legittimi desideri dei cittadini indigeni o quantomeno una trattazione dei diritti richiesti per gli immigrati confrontati con i doveri minimi di cittadinanza già imposti per legge a tutti gli altri.

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