Un articolo per l’8 marzo: covid, donne, lavoro, violenza

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In foto Elena Biaggioni 

9 marzo 2020, Conte annunciava che si doveva chiudere l’Italia: sono iniziati due anni faticosi con cui stiamo ancora facendo i conti. In questi due anni, è cambiato qualcosa per le donne vittime di violenza? In caso affermativo, cosa? Stanno uscendo adesso i primi studi: ad esempio, D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) riporta come ci sia stato un aumento delle richieste di aiuto da parte di donne che erano già seguite dai centri; ma un calo di contatti da parte di chi un aiuto non lo aveva mai chiesto. Vuol dire che c’è meno violenza “nuova”? Come leggere questi dati? Per capire meglio e scoprirne di più, riportiamo l’intervista ad Elena Biaggioni, avvocata tra i punti di riferimento in Italia per quando riguarda la violenza sulle donne.

Violenza sulle donne e primo lockdown: com’è andata?

In quel periodo se ne è parlato molto, di violenza. Se è vero che gli agiti violenti nelle coppie che convivevano sono aumentati, è da segnalare che c’è stata invece una diminuzione di tutte quelle forme di violenza che accadono all’esterno delle mura domestiche. Mi riferisco a tutti quegli atti che spesso sono successivi alla separazione perché riguardano, ad esempio, la gestione dei figli. Di frequente i figli sono un veicolo per continuare ad esercitare potere, a controllare, a portare avanti quelle condotte che rientrerebbero nello stalking. Ecco, questi agiti sono calati drasticamente.

La tua interpretazione?

Non posso fare a meno di notare che se ci sono delle limitazioni serie, di contenimento, regole precise, tutte quelle condotte cessano.

Pre-covid e durante il covid: cosa è cambiato in termini di numeri e dati?

Prima del covid c’erano dei dati che in realtà sono costanti: non c’è un aumento della violenza, semmai quello che varia tanto è la sua emersione. Quando è scoppiata l’epidemia alle attiviste è stato subito chiaro che chi già subiva maltrattamenti o aveva iniziato un percorso di uscita si trovava chiusa a casa con il maltrattante. In più, queste donne potevano non avere la percezione di potersi rivolgere a qualcuno. Nei primi 15 giorni di lockdown c’è stata una caduta verticale delle chiamate ai numeri dei centri antiviolenza; ci sta, perché se non sei mai da sola quando chiami? 

E poi non si sapeva se i centri fossero aperti.

Sì, ed oltre a questo a chi fuggiva di casa e aveva bisogno di un rifugio bisognava fare il tampone; e poi c’era il periodo di quarantena. Ora, già le case rifugio hanno pochissimi posti: se devono aumentarli per garantire la quarantena è chiaro che diventa tutto più difficile. 

La risposta istituzionale?

C’è stata attenzione da parte di tutti, hanno fatto un lavoro pazzesco continuando a ripetere che i centri antiviolenza erano aperti. Questo ha permesso di ripristinare i contatti, che non solo sono ripresi ma anzi, più si andava verso la fine del lockdown e più aumentavano le chiamate. C’è stato proprio un periodo di tantissime richieste e questo ovunque: a livello locale, nazionale ed anche internazionale.

Questo vi ha stupito, o in un qualche modo ve lo aspettavate?

Era una situazione esplosiva al chiuso. Da un lato pensi: il sogno del maltrattante è poterti controllare al 100%. Ma se tu sei controllata al 100% diventa una situazione difficilissima da gestire, non hai più sfoghi. Poi bisogna ricordarsi sempre che la violenza maschile verso le donne ha una radice che si alimenta nella disparità di potere non solo all’interno della coppia, ma anche a livello sociale. E in questo cos’ha portato il covid? 

Ecco, lo chiedo io a te: cos’ha portato il covid?

Oltre al discorso violenza, evidenziato sia dallo studio da D.i.Re che anche da alcune ricerche promosse dall’università di Trieste, il covid ha portato ad un’ulteriore situazione drammatica: i posti di lavoro che sono stati persi, sono stati persi principalmente per le donne. Non parlo solo di quelle che hanno perso il lavoro, ma anche di quelle che hanno dovuto rinunciarvi per l’aumento delle attività di cura. In Italia, ancora oggi, chi è che sta a casa coi bambini in DAD? In più tutti i servizi di cura all’esterno della situazione domestica sono stati chiusi e lo sono tutt’ora – come ad esempio i servizi pomeridiani. Il peso è ricaduto sulle donne.

Secondo te il pericolo di tornare indietro è concreto?

La regressione c’è già, ed è stata totale. L’allarme è stato lanciato a livello internazionale, ma in Italia la situazione è critica in modo particolare perché abbiamo questo substrato organizzativo i cui costi sociali sono, in grandissima parte, a carico delle donne. Ed in questa situazione la disparità aumenta anche all’interno delle relazioni; quindi aumenta la possibilità di violenza, ma soprattutto rende più difficile l’uscita perché bisogna potersi guadagnare un’autonomia. E questa spirale è ancora tutta attiva.

A livello giudiziario la risposta a questa violenza è presente?

Secondo me è aumentata, soprattutto in fase iniziale. Nel lungo periodo però, non so: è facile fare la denuncia, meno facile avere una condanna. Quello che serve alle donne sono buone separazioni e buoni accordi sui figli. Queste non è che siano aumentate o agevolate. 

Da cosa dipende?

Mentre coi procedimenti penali si è avuta un’accelerazione, quelli di separazione all’inizio erano fermi. C’è stata anche tutta quella fase di grande difficoltà nell’adeguare gli accordi sui figli alla situazione. Ad esempio, gli incontri protetti con gli assistenti sociali: ma gli assistenti sociali lavoravano da casa. Adesso l’attività è ripresa. Naturalmente c’è ancora un blocco molto forte di stereotipi e pregiudizi che continua ad influenzare le decisioni, però l’accesso alla giustizia - oggi - secondo me c’è. 

Cos’altro ostacola le donne nell’uscita dalla violenza?

Serve un grande movimento femminile e femminista, continuo a ripeterlo. Bisogna aiutare una riflessione sociale e questa è un’azione lentissima. Sono meccanismi così profondi e che vanno avanti da così tanto tempo che ci vorrà altrettanto tempo per elaborarli. Considera che alla società per com’è oggi conviene che le donne stiano a casa. Costiamo molto meno se stiamo a casa, siamo il welfare che richiede meno investimenti economici. E poi ci sono i sensi di colpa.

Capitolo sensi di colpa. In che senso – un esempio?

Lui ti ha picchiato. Tu ti senti in colpa perché l’hai denunciato. Ci chiediamo se lui si sente in colpa per averti picchiato? Neanche una si fa questa domanda; ed in più la società ti viene a dire di perdonarlo. La consapevolezza culturale è un lavoro di fino e di lungo periodo. Le donne si salvano da sole, ma bisogna metterle nelle condizioni di farlo. Poi bisognerebbe anche fare una riflessione sul fatto che le donne non hanno rappresentanza, non ci sono nei meccanismi di gestione pubblica e se ci sono, sono marginali e marginalizzate; appena una si mette in campo viene devasta di hate speech, controllata al millesimo se ha il trucco o no, ecc. Non pensiamo che le cose siano scollegate: è un pensiero che continua a dire “il posto tuo è a casa”. Posso chiudere con un invito positivo? 

Vai.

Le donne si salvano da sole, come ho detto: l’importante è che trovino accoglienza, che non ci siano i giudizi – anche da parte di altre donne. Dobbiamo supportarle, chiedere, dare una mano, tenere i bambini. Questo si può fare. Il cambiamento culturale è iniziato: bisogna andare avanti.

Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.

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