www.unimondo.org/Notizie/Tra-deserto-e-mare-il-dramma-di-chi-fugge-dalla-Libia-in-guerra-131270
Tra deserto e mare: il dramma di chi fugge dalla Libia in guerra
Notizie
Stampa
Incontrare don Sandro De Pretis, missionario in terra d’Africa è sempre un’esperienza che lascia il segno. Don Sandro è appena tornato dal campo profughi di Choucha, gestito dall’UNHCR, nel deserto della Tunisia dove circa 5000 persone di varia nazionalità (somali, eritrei, sudanesi del Darfur ma anche nigeriani e ivoriani) attendono il proprio destino. Don Sandro è già ritornato da loro. La sua brevissima vacanza è finita. Ma sono questi i ritmi di un uomo in trincea. Lo ricordiamo prigioniero a Gibuti nel 2009, la sua patria di elezione e di residenza. Lo seguiamo nelle carceri libiche, quelle a cui erano destinati rifugiati e migranti dall’accordo Berlusconi-Gheddafi solo per il fatto di scappare dalla guerra e dalla povertà. Ora da cinque mesi il missionario è a Choucha, in Tunisia, località a pochi chilometri dal confine libico. Il tono della sua voce è calmo e suadente, il suo argomentare semplice e privo di asperità. Don Sandro fa un ragionamento razionale, non accusa, constata soltanto la situazione. Indicando però possibili soluzioni.
“La situazione resta molto deludente, perché potrebbe essere risolta con soluzioni semplici e con la buona volontà di tutti. È deludente a cominciare dal posizionamento del campo: si trova in pieno deserto dove, a parte il caldo, almeno una volta in settimana si scatenano venti che sollevano la sabbia facendola entrare ovunque. Non è un caso che sia messo lì, abbastanza distante da altri villaggi che vedono con ostilità la presenza dei profughi. In maggio da una cittadina lontana 20 km sono venuti a distruggere il campo: ci sono stati incendi, scontri, violenze.
Questa è la politica del governo tunisino che non permette per nessuna ragione ai profughi di uscire dal campo. Inoltre siamo a 9 km dalla frontiera libica: se la guerra si inasprisce da un giorno all’altro potrebbe arrivare un grande flusso di profughi. In qualche giorno potrebbero giungere anche 100.000 libici. A Tripoli la guerra non è ancora entrata. La gente ha paura perché i bombardamenti certamente sono mirati però non si sa mai dove cadranno le bombe. Nessuno fa previsioni sull’esito del conflitto.
Quella del campo è una zona di frontiera con tutto quello che ciò implica: non esiste nessun tipo di legge, domina il più forte. Ci sono faide, briganti, predoni e la polizia tunisina è impotente. L’esercito che dovrebbe garantire la protezione del campo è sparito: sembra il Far West. Il programma alimentare mondiale fornisce il cibo ma poi ci sono sempre intermediari e trafficanti locali che in qualche modo speculano : così si mangia quasi sempre riso, o al limite pasta o couscous, ma niente altro da cinque mesi. C’è abbastanza acqua, relativamente abbastanza, circa 2 litri d’acqua per ciascuno al giorno che non è molto nel deserto”.
Le parole di don De Pretis descrivono un limbo di sabbia, sospeso tra la polvere, in attesa di un evento sempre promesso ma che non arriva mai, causando tensione, sfiducia ma anche desiderio di ripartire, di ricominciare il viaggio. “Eppure – continua il missionario – ci sarebbero anche buone notizie a cominciare dal fatto che l’UNHCR ha messo il campo in un regime di specialità e di priorità. Ci sono paesi (Stati Uniti, Svizzera e Norvegia) che hanno offerto alcuni posti per i rifugiati, mentre l’Italia si è detta completamente indisponibile. La Tunisia preme per risolvere velocemente la situazione. Ma alla popolazione del campo questo non viene detto. E così i più coraggiosi decidono di ritornare in Libia e di prendere i barconi (i prezzi per imbarcarsi sono molto diminuiti in questi ultimi mesi da 3000 dollari si è passati a 500 fino a 300 dollari) avventurandosi in mare, rischiando ancora una volta la vita. Vanno in Libia, perché la Tunisia, accordandosi con Francia e Italia, ha chiuso il mare”.
Il nostro paese dunque si è già reso complice di questa situazione. Potrebbe fare di più ma, coerente nella linea dei respingimenti peraltro comune a molti Stati europei, è preoccupato per il possibile afflusso di profughi che per colpa della propaganda politica sono dipinti soltanto come una minaccia. Bisognerebbe dunque agire su due fronti: da un lato premere per una soluzione rapida della situazione presente, dall’altro lavorare sui mezzi di comunicazione e sulla modifica della mentalità collettiva.
Sottolinea don Sandro: “Sarebbe molto più umano e sensato che l’Italia aprisse almeno qualche porta per questi rifugiati accogliendoli legalmente, offrendo loro la possibilità reale di giungere alla meta. Sono ancora molto legati all’Italia per il passato coloniale e si aspettano qualcosa da noi: può essere soltanto opportunismo ma molti nel campo ricordano la storia e pensano al nostro paese come un luogo di accoglienza e di opportunità. Hanno magari un nome italiano traslitterato nelle loro lingue. In un carcere libico abbiano anche incontrato un somalo che sapeva parlare in italiano.
Sono giovani forti e coraggiosi, che potrebbero essere sicuramente una risorsa per noi. Inoltre sarebbe importante far sapere ai cittadini normali da quali situazioni provengono queste persone. Sui giornali tante volte ci si limita ad analizzare il risultato finale, al fatto cioè che i migranti arrivano sui barconi. Ci si domanda poche volte da quali situazioni insostenibili queste persone fuggono. Che cosa cercano? Scappano dalla Somalia perché non vogliono entrare nelle bande armate, non vogliono fare la guerra che imperversa da decenni. Una cosa però si può dire sicuramente: tutti noi agiremmo nello stesso loro modo”.
Concorda don Beppino Caldera, direttore del Centro missionario di Trento
“E’ stata creata una mentalità fortemente avversa nei confronti dei migranti. Che invece sono buona gente, sono giovani, hanno voglia di lavorare, di vivere. Hanno dimostrato coraggio, pazienza e tenacia per compiere viaggi che durano anche da cinque anni. Sono finiti in prigione. E sono ancora pieni di speranza”.
La delusione non cancella la possibilità di futuro. Per questo don Sandro riparte ancora. Non c’è buonismo nei suoi occhi, soltanto la lucida consapevolezza che la storia si gioca anche in quell’angolo di deserto. Una storia di cui possiamo essere ciechi e passivi spettatori, badando a difenderci soprattutto dalle nostre paure, oppure di cui possiamo essere protagonisti in positivo scegliendo la strada del diritto e della giustizia. Se non lo facciamo per gli altri, facciamolo almeno per noi stessi.