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Tornare a casa durante la pandemia
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Foto: L. Michelini ®
“Razionali, bisogna restare razionali”.
Sono queste le parole che rileggo da casa, in Italia, mentre vado a sfogliare le pagine scritte a Dakar nei giorni di confinamento.
Mi trovavo in Senegal per seguire un progetto della Commissione Europea sulla prevenzione dei rischi connessi alle catastrofi ambientali (quindi siccità e cambiamenti climatici) e mai avrei pensato di dover far rientro in Italia per una pandemia diffusasi su scala globale.
Il giorno che ho deciso di tornare è stato quando mi sono resa conto che stavo organizzando dentro di me uno scenario di resistenza contro il mondo esterno: mi immaginavo le cose da comprare, l’acqua da stoccare, il riso, la pasta, le scorte di fiammiferi e candele in caso di interruzione della corrente elettrica. E poi la notte. Nella notte, quando si è veramente soli, si ragiona con una lucidità diversa.
Quante volte mi sono sentita dire di essere troppo catastrofica. “Non vedi che in Senegal non ci sono neppure duecento casi? Anzi, è proprio tornando in Europa che ti metterai in pericolo”. Ma proprio non riesco a smettere di domandarmi che portata avrà tale pandemia in Africa.
Gli ultimi giorni che ho passato nella capitale sono stati lunghi, ripetitivi. Eravamo in telelavoro, ma la testa faceva fatica a concentrarsi. Ogni dieci minuti mi spostavo dal sito della Farnesina a quello dell’Ambasciata italiana. Non riuscivo a trovare un volo per l’Italia o per un qualsiasi Stato europeo, perché i rimpatri organizzati dalle altre ambasciate davano la priorità ai rispettivi connazionali. Dopo ore di ricerche al computer mi rendevo conto di avere la schiena dura, le spalle contratte. Dieci giorni a guardare lo schermo del pc, a parlare con funzionari, cercare aerei, alternative. “Bisogna usare la testa, pensare”, mi ripetevo. Ma ogni giorno a questo labirinto si aggiungevano elementi sempre più complicati, enigmi da risolvere per arrivare alla via d’uscita.
Il 31 marzo, dopo circa due settimane di ricerche e adrenalina, sono venuta a sapere che forse sarei potuta salire su un volo Air France con destinazione Parigi. L’Ambasciata italiana nel frattempo aveva staccato le linee telefoniche e del volo promesso agli italiani non c’era ancora nessuna notizia.
Quel giorno il Senegal aveva contato il suo primo morto. Un signore pronto per essere trasportato a Nizza, che non ce l’ha fatta. Il tempo l’ha colto impreparato. Come impreparato è l’intero Paese. Un’analisi dell’Observateur (n. 4952, pag. 5, 31/03/2020) riporta che il Paese dispone di un totale di 200 respiratori e di 1 medico rianimatore ogni 100.000 abitanti.
Il numero di contagi è ancora relativamente basso, ma in un contesto povero, oltre al virus, sono anche i suoi effetti indiretti che devono far riflettere. Le misure di contenimento, una folla che dall’oggi al domani potrebbe trovarsi senza cibo e spazio. Questo è da temere. Un dato certo è che, complice il coprifuoco, nel mese di marzo sono aumentati i furti notturni.
l primo aprile ero finalmente all’aeroporto Blaise Diagne e pensavo che, forse, quello sarebbe stato il mio ultimo giorno a Dakar. Forse, perché, anche se avevo i biglietti in mano, finché l’aereo non fosse decollato non ci avrei creduto. Assieme a me, una lunga fila di persone, treccine e t-shirt in wax, quasi tutti francesi, ex vacanzieri con l’immensa fortuna di avere un passaporto europeo. Entrando in aereo mi è salita una gioia primitiva, avevo voglia di scoppiare in una risata isterica. L’equipaggio di bordo era costituito da volontari, tutti i posti erano pieni e dei passeggeri si intravvedevano solamente gli occhi per le mascherine portate al volto che rendevano gli sguardi ancora più intensi, carichi di parole non dette.
Poco prima di atterrare a Parigi ricordo di aver dato un'occhiata alla città dall’alto. Le strade erano vuote, come anche i parcheggi delle fabbriche.
Un'hostess, passando a raccogliere i rifiuti, ha dovuto redarguire un ragazzo che continuava a saltellare da un sedile all’altro senza maschera: “Signore, lei non ha ancora capito cosa sta succedendo in Francia, ci sono più di quattrocento morti al giorno e lei sta qua a spostarti nel corridoio come se nulla fosse? Si prepari, non sa che scenario lo aspetta a casa”.
L’aeroporto Paris Charles de Gaulle era semideserto. Un giovane con i rasta raccolti in una grande coda suonava al piano un pezzo di Ludovico Einaudi, mentre una squadriglia dell’esercito faceva la ronda tra i lunghi corridoi vuoti. Un viaggiatore annoiato ne approfittava per esercitarsi sui pattini a rotelle e un vagabondo incurante del virus passava in rassegna tutti i cestini in cerca di qualche avanzo.
Al ritiro bagagli nessuna norma sanitaria è stata rispettata, gente accalcata, spintonate, chi con una mascherina, chi una sciarpa arrotolata attorno alla bocca, chi nulla.
Le pratiche di immigrazione fortunatamente sono andate via veloci e altrettanto velocemente ho trovato un taxi per arrivare all’albergo. Trenta euro per fare sì e no due chilometri. A quanto pare c’è chi ha trovato il modo di lucrare perfino in questa situazione. “Doveva restare in Senegal – mi sento dire dal taxista - qua le persone muoiono come mosche. Per non parlare dell’Italia, non ci vada!”
Quella sera sono crollata a letto, avevo la testa che sembrava esplodere e mi veniva da vomitare dalla stanchezza. Prima di addormentarmi ho ricevuto una telefonata da Fanta, la donna delle pulizie dell’ufficio dove lavoravo. Una delle donne più forti che abbia mai conosciuto, sicuramente voleva sapere come stavo, ma non ce l’ho fatta a rispondere e ho lasciato che il telefono continuasse a squillare.
Ho sentito finalmente la tensione lasciare spazio a una calma profonda e a una sensazione di tranquillità. Ero in Europa, il resto poteva aspettare.
Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.