“The Cut”, rappresentazione di un taglio all’identità delle donne

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Tutto inizia a Gugulethu, una township (sobborghi in cui erano relegati i neri durante l’apartheid) a 15 Km da Cape Town in Sudafrica. È lì che Valentina Acava Mmaka nel 2011 fonda il collettivo Gugu Women Lab, un laboratorio interculturale per scoprire e dare forma artistica o letteraria alle diverse sensibilità che animano il gruppo. L’idea di base è semplice ma estremamente efficace: osservare e vivere gli spazi urbani che fino al ventennio precedente erano stati testimoni della rigida segregazione razziale dell’apartheid svelandone i limiti, o al contrario le potenzialità, che ispirano a ciascuna, sia essa sudafricana o immigrata, nell’ottica di tracciare le basi di una società multicolore realmente inclusiva.

Per 8 mesi le donne si spostano all’interno della città, tra bar, strade, garage, traendo ispirazione per schizzi letterari e poesie e maturando un dialogo aperto sul ruolo dell’arte e della letteratura nella promozione dei diritti civili di ogni individuo. È in queste circostanze che una donna del gruppo rivela di essere stata infibulata. Stupore e orrore al contempo fra le altre. Stupore, perché non si tratta di una pratica diffusa in Sudafrica (ad eccezione della tribù bantù dei Venda nel nord-ovest del Paese) e orrore per la tortura e la violazione subita nel suo corpo e nella sua integrità. Le settimane di laboratorio che seguono non possono che essere incentrare sul tentativo di tradurre in forma letteraria quel pianto che anima le donne del laboratorio perché, come scrive Valentina Acava Mmaka sul suo blog, “si è trasmesso il valore della scrittura come strumento per tradurre tale sofferenza in un percorso formativo di conoscenza, crescita, autocoscienza e condivisione dove la ‘parola’ diventa il ‘corpo’ della donna”. Nasce così “The Cut”, ossia “Lo strappo”, un testo teatrale sulle mutilazioni genitali femminili (MGF) elaborato dal collettivo di scrittura di cui fanno parte anche donne etiopi, somale, senegalesi, malesi, keniote, egiziane, che ben conoscono la piaga di questa pratica che vittimizza circa 140 milioni di donne, non solo in Africa.

“È proprio l’anello di congiunzione quello su cui occorre puntare” dice Valentina Acava Mmaka nel corso dell’intervista rilasciata a Unimondo. E spiega: la strategia per porre fine alle MGF non può essere che autonoma e locale, perché la pur giusta imposizione di una legislazione proibizionista a livello nazionale e mondiale ben poco ha contribuito a eliminarne la pratica. Le MGF continuano a costituire la realtà a cui molte donne sono sottoposte e a fermarle non saranno giudizi di valore sulla barbarie dell’atto o la messa in guardia sulle sue conseguenze rese da organizzazioni internazionali o non governative. Queste indicazioni, affinché siano efficaci, debbono venire da qualcuno che appartiene alla stessa comunità ma che si è messo a confronto con una cultura diversa: gli immigrati. In Sudafrica come in Italia, soltanto gli immigrati possono assumere quel ruolo di mediatori nel percorso di presa di coscienza della propria comunità di origine in questo confronto di alterità. La consapevolezza non può infatti riguardare solo alcune donne, solitarie “eroine” in una comunità avversa che le costringerebbe per tutta la vita ai margini della società senza la possibilità di accedervi.

Sulla scorta dell’esperienza di emancipazione femminile vissuta nel suo piccolo dal Gugu Women Lab, Valentina Acava Mmaka decide di portare in Italia il tour di “The Cut” con l’obiettivo da una parte di creare “anelli di congiunzione” tra immigrati e società italiana in loco, per stimolare conoscenza e rispetto reciproci, e dall’altra di proporre un dialogo tra immigrati e comunità di appartenenza, per indurre un cambiamento nella cultura di origine attraverso l’acquisizione di una nuova visione della donna nella sua interezza. Il coinvolgimento di donne immigrate nella visione della performance è fondamentale: come racconta con orgoglio e commozione Valentina Acava Mmaka, talvolta i loro forti abbracci alla fine dello spettacolo hanno indicato chiaramente una presa di coscienza e probabilmente l’impegno a non portare avanti la pratica sulle loro figlie.

Il successo di “The Cut” induce a procedere oltre, anche in Italia, per fare acquisire consapevolezza su una realtà così ancora poco conosciuta, o meglio, di cui si parla raramente e in maniera errata. È nettamente negativo il giudizio di Valentina Acava Mmaka sui media e sulle istituzioni scolastiche: i primi trattano di MGF sono in casi di bieca cronaca nera, spesso collegando erroneamente la pratica alla religione islamica e collocandola solo nell’area africana; le seconde incontrano delle difficoltà nell’affrontare in generale il tema della sessualità, figurarsi una questione delicata come le MGF. Ecco dunque la scelta recente di portare “The Cut” anche nelle scuole, per fornire un linguaggio artistico che permetta di esprimere e comunicare ai ragazzi ciò che risulta così difficile spiegare in una canonica lezione frontale. Il forte stupore da parte dei giovani studenti, accompagnato da un senso di estraneità a qualcosa di percepito come al fuori della propria realtà, meriterebbe il supporto di un educatore, che molto spesso però, nell’esperienza rilevata, dovrebbe essere formato a sua volta. Forse una sconfitta per questo sistema scolastico che manca di interrogarsi sull’oggi, con lo sguardo arrogante di chi pensa che ricucire “questo strappo” non sia anche di sua competenza.

Miriam Rossi

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