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Tanti auguri Europa!
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“Festeggiata?” “C’è!”
“Bigliettini di invito?” “Ci sono!”
“Candeline scoppiettanti?” “Ci sono!”
“Mancano dunque solo gli invitati. I 28 invitati hanno dato conferma per la festa di oggi, 9 maggio?” “Ni…”
Come in una grande famiglia, l’Unione Europa festeggia oggi il suo compleanno chiamando attorno alla sua casa, ossia alle istituzioni e ai propri progetti, i genitori che hanno deciso la sua nascita e gli zii adottivi che nella sua esistenza ha raccolto attorno a sé. Il clima appare però più la scenografia di “Parenti serpenti” che un episodio di “Brothers and Sisters”. Un’atmosfera di celato egoismo e distaccata indifferenza, se non di ostilità e crescente insoddisfazione, che rischia, come nello storico film di Mario Monicelli, di far saltare in aria la comune casa europea. Tante, troppe le candeline accese. Candeline di scontri e di diverbi innanzitutto. Ma anche candeline che guardano al passato, a una “celebrazione della pace e dell’unità” che l’Unione Europea ha di certo portato sul territorio ma che sembra avere uno sguardo che si scopre improvvisamente piuttosto miope dinanzi ai futuri obiettivi dell’istituzione. Dunque, seppure sia festa nei ben 28 Stati membri che compongono l’UE, la festa dell’Europa appare priva di entusiasti partecipanti.
Il solenne anniversario dettato dal settantenario della fine della seconda guerra mondiale meriterebbe però senz’altro un’ampia menzione. L’8 maggio 1945, o il 9 maggio nei territori più orientali sotto il controllo dell’Armata Rossa sovietica, la firma della resa incondizionata tedesca sancì la conclusione del conflitto in Europa con la vittoria degli alleati. È il cosiddetto “V Day” (Victory Day), il giorno della Vittoria, nonostante la guerra mondiale avrebbe riservato ancora qualche terribile cartuccia in Estremo Oriente. A 70 anni di distanza da quei giorni, un brivido sale lungo la schiena. Un brivido che convoglia le emozioni di chi non sa più cosa sia la guerra vissuta sulla propria pelle. Restano i racconti di una generazione di testimoni in scadenza. Restano le foto, i dati, i documenti. Ma si fa strada anche il disinteresse, la lontananza, il dare per scontato la pace e l’assenza di conflittualità, anche quando la guerra è così vicina eppur irreale. L’Ucraina orientale è in fiamme, la Libia è sprofondata nella guerra civile, così come ormai da 4 anni la Siria, l’Egitto fatica a ritrovare un assetto democratico e pacifico, il gigante turco sembra al bivio di una scelta che lo potrebbe portare più vicino a Occidente o spingere al di là dei Dardanelli, e il territorio palestinese continua a configurarsi come una polveriera pronta ad esplodere. Iraq, Afghanistan, Yemen hanno bollettini di morti da guerra che fanno ormai poca notizia. E questo è solo un piccolo spaccato dei conflitti attualmente in corso e a cui più da vicino guarda l’Europa.
Si potrebbe dire che la pace europea sia sotto assedio? Sarebbe forse più opportuno riflettere sul fatto che l’UE non sia riuscita a divenire un modello di pace e di convivenza tra differenti etnie, credi, religioni e ceti sociali, “esportandolo” anche in territori limitrofi ai propri confini. Proprio negli ultimi anni, probabilmente in reazione alla crisi economica-finanziaria e sociale che dal 2008 ha interessato il continente, il sogno dell’Europa unita sta piuttosto cedendo dinanzi ai colpi ben sferrati da egoistiche richieste nazionali. E se da un lato si accusa l’Unione Europea di ingerenza negli affari interni di uno Stato quando si parla di vincoli di bilancio o di scambi commerciali in nome di un riscoperto ardore nazionale, dall’altro lato si cerca il supporto comunitario per interventi strutturali, per il finanziamento di settori legati all’istruzione e alla ricerca, per il sostegno al lavoro o nel caso di interventi umanitari.
A questo proposito è emblematica la questione dell’immigrazione in Italia. Gli organi dell’UE sono accusati sia di superare i poteri ad essi conferiti dai Trattati comunitari in occasione delle critiche giunte alla legge Bossi Fini che dal 2002 è andata a regolare la materia, sia di non contribuire alle operazioni di respingimento e soccorso nel Mar Mediterraneo dei barconi di indistinti immigrati che tentano di raggiungere la sponda sud dell’Europa. Se dunque nel primo caso si parla di ingerenza negli affari interni dello Stato membro, nel secondo la pretesa di intervento supera la mancanza di competenze dell’UE in materia di immigrazione. Scelta che gli Stati membri dell’UE, Italia inclusa, hanno deciso di confermare, opponendosi al trasferimento dell’immigrazione tra i settori di intervento europeo nel timore di norme più liberali nella concessione dello status di rifugiato o di disposizioni a maggior tutela dei diritti degli immigrati, ma così rinunciando a una condivisione comunitaria del problema umanitario e di ordine pubblico.
Un esempio di come manchi oggi un piano di cooperazione rafforzata tra gli Stati membri, una mission condivisa anziché sopportata a malincuore dinanzi alle rispettive opinioni pubbliche. Ed è proprio il 9 maggio, nella Giornata dell’Europa, che una riflessione sul futuro dell’organizzazione sovranazionale europea dovrebbe prender vita, al di là delle consuete commemorazioni e delle pubbliche manifestazioni con bandiere svolazzanti a 12 stelle dorate e scatti patinati. Esattamente 65 anni fa, nel 1950, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman presentò un piano di cooperazione che avrebbe creato le basi della futura Europa unita. Qualche politico europeo si candida ad assumere un analogo ruolo per costruire l’agognata UE dei popoli?
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.