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Superare la frammentazione individualistica
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Anno nuovo, classe dirigente vecchia. Non forse per età, sicuramente per idee. Di buoni propositi, come ovvio, ce ne sono a iosa. Alla fine però la tendenza generale non cambia. Il declino della qualità dei nostri governanti è tangibile. Molte sono le ragioni, ma mi vorrei soffermare su una sola.
Questa la situazione di contesto: le persone più capaci sono disincentivate ad impegnarsi in politica. Troppe critiche, troppi litigi, troppa inconcludenza. Meglio ritirarsi nel privato. Di certo un impegno professionale dà più soddisfazioni.
Sembra strano, ma l’aspetto psicologico, individuale e collettivo, conta sempre di più in politica. Una volta usciti dalle devastazioni belliche (che, oltre alla distruzione, lasciavano il desiderio collettivo di ricostruzione) e una volta consolidato un diffuso benessere, piano piano si è persa qualsiasi volontà comune per il miglioramento effettivo della società, a prescindere dall’alternanza dei partiti al governo. Oggi la politica è un ring. Moltissime scelte sono spiegabili soltanto attraverso un’analisi comportamentale dei protagonisti: ripicche, inimicizie, senso di rivalsa, invidie, paura di essere marginalizzati spinge ad atteggiamenti e decisioni che non hanno nulla di razionale e di trasparente, condizioni invece indispensabili per un reciproco e fruttuoso dibattito su idee divergenti. Il termine politica dunque ha sempre meno a che fare con la città (polis) e sempre di più con la guerra (polemos). Una guerra incruenta ma che comunque sublima l’aggressività congenita a tutti e la trasforma in una lotta per il potere fine a se stessa.
Allora “resistono” quanti antepongono tutto alla politica, quanti si sentono sgomenti se non hanno un incarico, quanti sono pronti a giravolte: la lotta per la sopravvivenza – che da politica diventa quasi esistenziale – fa vincere i cinici e gli arroganti. Le effettive qualità personali e le competenze professionali sono travolte da altre logiche.
Almeno in Italia gli ultimi anni sono stati segnati da un grado di litigiosità politica senza precedenti. L’alternanza di governo (dopo il predominio democristiano) non ha generato una positiva competizione tendente a migliorare le capacità amministrative, ma ha innescato una contrapposizione nefasta: prima di governare, bisognava smontare l’azione precedente. Ogni nuovo governo prometteva una rigenerazione dal nulla. Arriviamo noi e sistemiamo le cose. Noi siamo i migliori. Alla fine però, se non esiste continuità almeno sulle cose fondamentali, qualsiasi organismo politico declina.
La diffusione dei mezzi di comunicazione non ha fatto altro che amplificare questa litigiosità. Nel frattempo il tessuto connettivo della società si è sfaldato, regna l’individualismo, la corruzione dilaga (e non sembra essere più un grave problema) e con essa la sfiducia dei cittadini nello Stato. Si cercano allora alternative, confidando in ricette populistiche, ma soprattutto rifugiandosi nella disaffezione.
Troppo facile però sarebbe prendersela solo con chi occupa posizioni di potere. In democrazia la classe dirigente è lo specchio dell’intera comunità: se la qualità dei propri rappresentanti è scarsa, ciò significa che la cosiddetta “società civile” non riesce ad esprimere qualcosa di meglio. Si è come rotto quel “patto sociale” che ci tiene insieme. Si salvi chi può, ciascuno si arrangi come può. Questo atteggiamento, tipicamente italiano (vedi la riflessione politica cinquecentesca), nuoce grandemente al futuro di tutti.
Così non si riescono a distinguere i compromessi necessari dagli accordi truffaldini, si dissolve il confine tra capacità e scaltrezza; non esistono più la responsabilità, il merito, l’effettiva valutazione dei risultati. E se non contano i dati di fatto, allora tutto è possibile.
La radice ultima di questa situazione sta forse nel dilagare dell’individualismo, sulla spinta del capitalismo e dello stile di vita importato dagli Stati Uniti. Ciò ha portato alla tutela dei diritti della singola persona: un notevole avanzamento rispetto ad un tempo (non lontano!) in cui l’individuo poteva essere sacrificato all’ideologia, allo Stato, a “valori” superiori che, di volta in volta, sembravano inconfutabili. Oggi sappiamo che la dignità della persona è un bene supremo, inviolabile.
C’è però un’altra faccia della medaglia: questa tendenza, riscontrabile in ogni ambito della vita quotidiana (dagli affetti al modo di comunicare, dall’educazione al lavoro, dalla politica alla cultura), sta portando l’occidente alla frammentazione. Ognuno parte da sé e ritorna a sé. Difficilissimo fare comunità, pensarsi come comunità. Perché stare con gli altri non è semplice; infatti implica la rinuncia a una parte di sé per fare posto all’altro. Non può esistere un “bene comune” se siamo incapaci di “stare insieme”. E la stessa idea di democrazia vacilla.
Di converso oggi non si parla d’altro che di “rete”. Ci sono nuove forme aggregative (magari legate a condivisione di beni, mezzi di trasporto, alloggi… la famosa sharing economy), ma esse non riescono a creare solide strutture sociali capaci di influire sulla politica. Qualcosa si muove, forse per cambiare le cose, bisognerebbe darne notizia.
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.