Sulla rotta balcanica. Andata e ritorno

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Una “Balkan Route al contrario”, un viaggio a ritroso lungo la rotta di quei migranti che, dal Medioriente, cercano di raggiungere l'Europa passando attraverso la penisola balcanica. Una spedizione tutta al femminile, che ho intrapreso a fine maggio assieme alle colleghe di IPSIA Nazionale e Caritas Serbia, nel tentativo di capire necessità, speranze e destini di migliaia di quei richiedenti asilo costretti, ormai da mesi, nelle tende dei campi profughi. Il viaggio è stato fatto nell'ambito del progetto “Emergenza rifugiati sulla Western Balkan Route in Serbia”, promosso da IPSIA del Trentino e finanziato dall'Assessorato alla Cooperazione allo Sviluppo e la Giunta della Provincia Autonoma di Trento.

A seguito della chiusura della frontiera fra Grecia e Macedonia, la situazione nei Balcani è molto cambiata: mentre in Macedonia, Serbia e Croazia, dei campi ufficiali allestiti dall’Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) resta ben poco e quelli ancora funzionanti sono semi vuoti, 50.000 persone attendono in Grecia la riapertura dei confini.

Attorno al piccolo quanto ormai tristemente famoso villaggio di Idomeni al confine tra Grecia e Macedonia, l'impressione è quella che tutta l'umanità di questa terra si sia data appuntamento lì, per un esodo di massa. Il campo informale che ospitava 13.000 persone, accampate in una tendopoli sorta spontaneamente lungo la ferrovia che attraversa il confine macedone con la Grecia, è stato di recente sgomberato per decisione del governo greco. Ci andiamo, per vedere con i nostri occhi quello che ci era stato solo riferito: il tempo, sembra essersi fermato al momento dell'evacuazione. Ovunque pasti non finiti, medicine, giocattoli di bambini. Una tenda con una squarcio su un fianco, come se chi stava dormendo al suo interno quella mattina, fosse stato strappato al sonno con la forza per essere portato altrove, senza sapere dove. Una famiglia siriana fuggita allo sgombero ci racconta di quella mattina, di come l'esercito greco, armato, abbia circondato il campo all'alba, facendo cordone attorno all'accampamento; un elicottero sorvolava la zona mentre la gente veniva fatta salire sui pullman per essere trasportata nei campi ufficiali allestiti dal governo greco nell'entroterra, senza nemmeno il tempo di impacchettare le proprie cose.

Circa 5.000 persone si sono rifiutate di essere trasferite. Hanno preferito sistemarsi in edifici abbandonati, pompe di benzina e autogrill lungo l'autostrada che dal confine macedone porta fino a Policastro, eletti ad accampamenti informali dove si sono ammassate fino a 3500 persone (è il caso dell'Hotel Hara) di cui moltissimi bambini. Sull'asfalto, senza acqua corrente, persi fra droga, violenza e traffico di esseri umani. Sui loro volti, nei loro sguardi persi, un misto di rassegnazione ed incredulità. Siriani, afghani, iracheni, qualche pakistano, accomunati da un'unica, assillante domanda: quando riapre il confine? Come se, in cuor loro, la prospettiva di vedere infranto il sogno d'Europa sia qualcosa di impensabile. Circa mille persone risultano poi letteralmente disperse, ed è opinione di Medici Senza Frontiere che siano nascoste fra i campi ed i boschi dell'area circostante Policastro. È notizia di questi giorni che anche queste tendopoli sono infine state sgomberate.

Secondo la Caritas, nonostante gli accordi ed il filo spinato, la rotta balcanica continua a registrare un passaggio di 500 persone al giorno. Nulla a che vedere con i numeri dell'emergenza, certo, ma prova che, nonostante tutto, il traffico di esseri umani continua a fare il suo lavoro. Nel frattempo, ad Idomeni, i contadini sono tornati al lavoro nei terreni prima occupati. A ricordo di quel che è stato, ben visibile sopra quel che resta della tendopoli più grande d'Europa, una scritta in inglese: “HOPE”, speranza

Annalisa Prandi, volontaria in servizio civile, inviata da IPSIA del Trentino in Serbia.

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