Siamo sul Financial Times. E allora?

Stampa

La prima sul Financial Times. Lo riprende Il Sole 24 Ore. Se non bastasse, la Stampa rilancia. Quest'ultima titola: "caffè solidale, invece è una truffa". Una condanna senza appello, senza contraddittorio e senza analisi.

Trattasi di un'inchiesta di Weitzman riguardante il caffè certificato da Fairtrade e prova come la certificazione possa mostrare falle e contraddizioni alle quali è necessario dare una riposta adeguata: lavoratori stagionali assunti ad un salario sotto il minimo legale ed alcune partite di caffè venduto come certificato proveniente da piantagioni non certificate. Poco ci deve consolare se gli stagionali erano pagati comunque di più rispetto al contesto del paese (un terzo di salario in più della filiera convenzionale). Le risposte di Luuk Zonneveld, direttore di FLO (l'organismo con sede a Bonn che detta gli standard per la certificazione equa dei prodotti), sono largamente insufficienti.

Mandacarù Altromercato non ha mai avuto un rapporto idilliaco con i certificatori. Pur riconoscendo l'importanza ha cercato di costruire, nel tempo ed attraverso CTM, un rapporto diretto con 150 microproduttori, peraltro certificati. Realtà variegate, dinamiche, in continua trasformazione. Impure. Proprio come la nostra cooperativa che, attraverso la cooperazione comunitaria, cerca di abitare al meglio questo mercato e le relazioni oltremare.
Personalmente trovo antipatiche le realtà immacolate. Se così fossero, che bisogno ci sarebbe di cooperare con loro?

Ma il Financial Times ha sollevato questioni vere. Ce l'aspettavamo. Nell'ultima relazione del sottoscritto all'assemblea di Mandacarù (maggio 2006) allertavo la cooperativa dal fatto che il commercio equo sta superando una soglia critica di sviluppo e quindi sarà facilmente attaccato dai media pronti a compiere il proprio dovere cercando tra le pieghe delle piantagioni o dei laboratori realtà che più assomigliano al mercato vero che a quello equo.

Ciò induce a:

1) accogliere sino in fondo le critiche per migliorare il nostro "fare comes". Tutt'altro da uno sterile "stare sulla difensiva" differenziandoci dalle pratiche di commercio Enron, Parmalat o le Cole con pesticidi;

2) esigere sempre più regole chiare e condivise che stiamo costruendo con i vari parlamenti (come la proposta di legge italiana o la direttiva dell'Unione Europea) monitorando tutta la filiera dal produttore fino al rivenditore. Non limitarsi, quindi, alla certificazione dei soli prodotti;

3) capire che non siamo più piccoli e quindi dobbiamo mettere in campo, come CTM o AGICES, risorse di pubbliche relazioni per spiegare le nostre ragioni, i nostri percorsi, i nostri sogni. Per differenziarci dagli "equofurbi" che si mettono nel mercato appropriandosi di una storia, di una reputazione, di uno scaffale altrui.

4) differenziare l'"equo" dall' "etico" o dal "solidale" dei grandi gruppi come Kraft (citato dal Financial Times), Nestlé , Starbucks o altre catene della grande distribuzione che tendono alla ricerca del massimo profitto, senza ricadute né nella comunità ove viene venduto il caffè e né nella comunità ove viene prodotto. Nell'articolo è inoltre citata la Fairtrad Foundation UK che è una meritoria società privata certificatrice (B2B) e non un'organizzazione di commercio equo garante di tutta la filiera come cercano di fare molti partner di IFAT www.ifat.org.

5) discernere il prodotto che ha una storia di liberazione alle spalle da quello che ha solo un marchio di garanzia e che può, più facilmente, incappare in ciò che i giornali hanno rilevato.

6) spiegare che alcune ONG come la Rainforest Alliance, citata dall'articolo, in collaborazione con Kraft, non è un'organizzazione di commercio equo e che spesso v'è un abuso dei termini. Spiegare, inoltre, che alcun prodotto incriminato è stato venduto nel mercato italiano ove, peraltro, il certificatore Fair Trade Transfair s'è più volte smarcato dal suo omologo inglese, più propenso a lavorare con le multinazionali.

7) comprendere che la cooperazione con i microproduttori è un processo non immune da difficoltà. Noi cooperative del Nord ed i microproduttori del Sud siamo accomunati da molti difetti ma altrettanti fattori di eccellenza. Basterebbe, a tal fine, sfogliarsi le recenti ricerche di autorevoli Università a livello internazionale (in Italia ricordiamo la Cattolica, la Bicocca di Milano e Tor Vergata di Roma).

L'articolo, paradossalmente, nell'attaccare il commercio equo sta confermando l'approccio di filiera - dal contadino al consumatore - che CTM s'è dato. Trattasi di un cammino in divenire che non è lineare, ma in continuo cambiamento (economico, sociale, ambientale), fatto di accelerazioni, ritardi, strappi improvvisi e che viene valutato attraverso questionari, griglie, indicatori, missioni e tanto ascolto.

Tutti questi sono strumenti indispensabili solo se interpretati tenendo conto non semplicemente della fotografia dell'attimo, ma del percorso decennale, non del semplice rispetto dello standard sociale/ambientale previsto, ma del momento e del contesto in cui questo viene valutato.

Tutto ciò porta necessariamente a delle valutazioni complesse, basate su dati di fatto, ma che talvolta contengono elementi contradditori, dubbi che con questo approccio valutativo possono divenire crediti, fiducia ed essere riscattati, salvaguardando e talvolta, col proseguire della relazione, esaltando il progetto.

Nella complessità bisogna però compiere sino in fondo il proprio dovere e quindi capire, come afferma Agices, "come queste falle siano costitutive del sistema o come possano, al contrario, essere eccezioni fisiologiche di un sistema che nella sua generalità funziona".

Non è il caso di allarmismi. Stare sul mercato significa anche questo. Se sapremo trarre serenamente delle indicazioni per il nostro agire, anche da questa diffamazione, avremo l'occasione per crescere. E non solo in termini di fatturato.

Fabio Pipinato
(Presidente di Mandacarù)

Sullo stesso argomento si veda l'intervento di Alberto Zoratti

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