Senegal: indubbia creatività

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Moustaphà Dieng. Senegalese. Operaio, sarto, magazziniere, organizzatore di sfilate di moda. Assieme viaggiamo nel paese dei griots o “maestri della parola”: il Senegal. Approfittiamo della sua semplice saggezza cardinata in “parole chiave” per “farci del bene”.

Per Moustaphà “il popolo senegalese ha la capacità di convivere pacificamente e nel reciproco rispetto delle differenze. Vorrei sottolineare la parola rispetto e non tolleranza”. E qui mi fermo un attimo perché il magazziniere Moustaphà ha posto la prima parola chiave: tolleranza. Secondo il dizionario on line www.demauroparavia.it: atteggiamento di chi permette o accetta convinzioni politiche, religiose, etiche, ecc. o comportamenti diversi dai propri. Dimostrazione di comprensione o indulgenza per gli errori o i difetti altrui. Implica, quindi, una superiorità sottintesa da parte di chi tollera qualcosa o qualcuno che evidentemente non consideriamo alla nostra altezza. Per Alberto Castagna di Polemos la tolleranza è la trappola dei potenti, loro possono esercitarla, dall'alto della loro intangibilità e superiorità.

“Trattasi di una convivenza tra le diverse etnie (18, originarie del Senegal), tra senegalesi ed immigrati (libanesi, cinesi, altri africani, europei), tra diversi credi religiosi (90% musulmani e 10% cristiani). Basti pensare che il primo Presidente della Repubblica, Leopold Sedar Senghor, era cristiano”. Seconda parola chiave: cristiano. Ma il Senegal è un Paese mussulmano. Da 40 anni fa parte formalmente della Conferenza Islamica. È forse immaginabile al Quirinale un mussulmano?

Continua Moustaphà: “Un altro lato positivo è il non sentirsi ma come singolo solo e/o inutile perché ogni persona è inserita in una ricca e complessa rete sociale in cui – in tutte le fasi della vita – ricopre sempre un ruolo riconosciuto da tutti”. Guardiamo alle prime due parole chiave. Chi è solo è inutile. Chi è in rete non lo è. La via d’uscita alla crisi economica è rafforzare le reti a tutela prima delle persone e poi dei lavoratori. La terza parola chiave è “ricca” e scardina ogni classifica che abusa del termine in base al Prodotto Interno Lordo.

Ancora: “I senegalesi hanno la naturale capacità di prendere la vita con “filosofia”, di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, di saper godere anche delle cose piccole o poche cose che la vita ti offre. L’appezzare il “qui ed ora”. Insomma, senza troppa ansia per il domani, per la crisi o per l’eccesso di igiene. Ha un senso passare un decimo della vita di un occidentale a pulire o lavare la macchina? A togliere tempo ai rapporti amicali, di vicinato, solidali?

L’ultimo lato positivo secondo il sarto Moustaphà: “l’indubbia creatività dei senegalesi che si esprime sia quotidianamente nell’arte di arrangiarsi, nel saper trovare soluzioni creative ad ogni problema sia in generale in una produzione artistica di grande livello nelle sue più svariate forme: pittura, scultura, musica, letteratura, poesia, moda, cinema, teatro”. Le pellicole dei registi senegalesi inondano ogni anno il Festival del Cinema Africano di Milano. Ma la creatività non è riservata a pochi intellettuali. Basti vedere i disegni delle piroghe dei pescatori che solcano l’Atlantico verso la stupenda isola di Gorèe ove, un tempo, partivano gli schiavi per le piantagioni di cotone americane.

(Fabio Pipinato)

 

Cinema senegalese

Come ci racconta Cinzia Quadrati in InSenegal.org è proprio il Senegal, nell’Africa nera, il primo ad avere una cinematografia indipendente e di qualità. Nel 1963 venne realizzato Borom Sarret diretto da Ousmane Sembène. Il titolo è una fusione di wolof (lingua nazionale) e francese (lingua ufficiale) e punta il dito sulla presenza-imposizione del francese. Un binomio, quindi, di tradizione-modernità che permea ogni aspetto della vita di questo Paese.

Il cinema senegalese oggi presenta due generi distinti: i film cosiddetti “di villaggio” e quelli di critica sociale.

I primi si presentano come grandi affreschi dal ritmo dilatato, in cui, appunto, il tempo sembra essersi fermato in un immobilismo solo apparente. Sono i film della memoria, del riappropriazione in extremis di un passato che è ancora presente, voci di una civiltà che da molti, a lungo, per ignoranza, è stata considerata incivile, che ora trova la forza ed il coraggio di affermare tutta la sua dignità.

I film di critica sociale sono i film dell’indignazione, i film della denuncia attraverso il racconto per immagini, nei quali, con evidente fine didattico, si evidenziano e si pongono sotto accusa i mali e le storture del moderno sistema africano, che spesso scimmiotta quello occidentale, perdendo di vista i suoi punti fermi. L’impegno civile è forte, ma i toni sono leggeri e scanzonati grazie all’uso dell’ironia, imprescindibile nella cultura africana che ne ha fatto un’efficace arma per sconfiggere o convivere con la sofferenza. [F.P.]

 

Fonte: AESSE - Azione Sociale

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