Se anche la morte è social

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In effetti ne abbiamo fin troppi di esempi in cui la morte ci viene sbattuta in faccia grazie ai media. Sia la morte del proprio animale domestico, la cui dipartita si accompagna con affetto postandone l’ultima foto dal veterinario (sigh!); sia la guardia freddata in mezzo alla strada poco dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo; siano i corpi esanimi dei migranti riversi sulla spiaggia o galleggianti in mare; sia - perché anche questo mi è toccato in (cattiva) sorte di vedere - l’ultimo selfie con il nonno scattato in camera mortuaria… la morte ci è presente ben oltre il memento mori di medievale memoria. Ma perché Unimondo si avventura oggi su tali argomenti? Cosa ha a che fare la morte con la pace, lo sviluppo, i diritti umani, l’ambiente? Ben poco in questo caso. Ma è social, tremendamente social, e Unimondo i social li abita, arricchendoli di contenuto. Vale allora la pena di spendere due parole per una metariflessione che ci riguarda tutti. Come utilizzatori del web, come possessori di un profilo Facebook o Twitter, come gestori di una pagina o di un blog, come titolari, in pratica, di un qualsiasi account online.

Vi è mai capitato di provare una brutta sensazione nell’imbattervi, per esempio, nel profilo Facebook di una persona deceduta? A volte il senso di disagio è direttamente proporzionale alla quantità di commenti, immagini e attività che, da un lato, appartengono alle ultime ore di chi possedeva quel profilo e, dall’altro, afferiscono invece a conoscenti e amici più o meno vicini, che su quella pagina lasciano i propri post commossi. Per non parlare di chi scopre proprio online che quella persona non vive più dietro lo specchio del virtuale. Se un profilo in memoriam può anche rappresentare un modo per manifestare la propria vicinanza ai familiari o alle idee di chi ha lasciato questo mondo e, di fatto e senza troppi scandalismi, non è che una sostituzione “al passo coi tempi” dei libri firma che troviamo ai funerali o dei messaggi di condoglianze destinati ai parenti, diversa è la questione quando, semplicemente, quel profilo rimane aperto e ingestibile. Ingestibile perché il solo titolato a farlo non lo può più fare per evidenti cause di forza maggiore.

La notizia è che Mr. Zuckerberg ha pensato anche a questo. Per 1,39 miliardi di utenti nel mondo si avvicina progressivamente (e per gli italiani è già attiva) la possibilità di definire come “far morire il proprio account”. Impostazioni à Protezione à Contatto erede. Tre semplici passi per indicare chi avrà facoltà di intervenire sul nostro profilo nel caso in cui, per mutuare la delicata espressione utilizzata dal portale, “ci succeda qualcosa”. Una sorta di tutore legale del morto, che potrà “pubblicare un post, rispondere a nuove richieste di amicizia o aggiornare la tua immagine”. In pratica, alcune essenziali istruzioni per gestire un “account commemorativo”, anche se è inevitabile che un sorriso amaro queste parole lo portino alle labbra, soprattutto se riflettiamo sull’utilità di “aggiornare l’immagine del profilo” di una persona deceduta. Anche perché, nella maggior parte dei casi, non stiamo parlando di una rockstar o di una personalità del mondo dell’arte o della cultura, per cui non è insolito assistere a momenti celebrativi volti a diffonderne il culto e le opere anche post mortem

Tra le nuove funzioni però, seppure sia prevista l’opzione che la pagina personale di un iscritto si trasformi dopo il decesso in un memoriale, verrà in ogni caso mantenuto qualche residuo delle impostazioni per la privacy, impedendo all’erede di leggere o rispondere ai messaggi privati. Come a dire che tutto quello che abbiamo nascosto in vita ce lo portiamo nella tomba, che sia social o no.

L’alternativa è che l’account venga cancellato in maniera definitiva, ma questa opzione non sembra allettante: viene presentata con un taglio un po’ minaccioso, con una frase che assomiglia a “con questa selezione, del tuo account non resterà più niente e nessun materiale sarà più visibile a nessuno”. Ecco allora che nell’abitante di questo mondo social scatta un dubbio, come un’esitazione. Pensare che tutta la vita raccolta nell’account, anche se rappresentata da una percentuale minima di foto, commenti, citazioni, condivisione di musiche e immagini in formato virtuale, venga cancellata in un attimo suscita un certo brivido lungo la schiena.

In entrambi i casi è comunque necessaria la presentazione di un certificato di morte, opzione prevista per esempio anche per la chiusura di un account di Google o Twitter.

Costruire online le nostre identità virtuali e animarle del soffio della vita non ci esime, anzi, ci costringe a confrontarci con la loro fine. Inevitabilmente, anche online la vita e la morte sono legate a doppia mandata, e se morire offline resterà fino all’ultimo un mistero nei modi e nei tempi, morire online diventa una scelta che possiamo modificare a nostro piacimento, spuntando o meno una casella-opzione. Una cosa è però certa: la responsabilità di vivere ogni giorno con lo stesso trasporto che investiremmo se fosse l’ultimo è un dovere reale e presente, che ricade in buona parte e senza deleghe su di noi. E che può renderci all’altezza del nostro esistere felici.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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