Relitti fantasma

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Sono passati poco più di due anni dal naufragio della Costa Concordia e finalmente, almeno secondo le ultime informazioni, in queste settimane si conoscerà il nome del porto nel quale il relitto della nave da crociera sarà smantellato. In lizza per aggiudicarsi il ricco cantiere una dozzina di porti, fra cui Genova, Piombino, Civitavecchia e Palermo. La maggior parte dei candidati è però fuori dai nostri confini: Francia, Regno Unito, Norvegia, Turchia e ancora più lontano. Ad oggi di fatto non esistono porti europei attrezzati per il decommissioning, lo smantellamento delle grandi navi.

Ultima spiaggia 

Dove finiscono allora cargo, tanker o traghetti giunti a fine vita? Semplice: protetti da una bandiera di comodo (secondo l’ong francese Robin des Bois, un quinto delle navi europee cambia di bandiera poco prima di sparire dalla circolazione: Saint-Kitts-et-Nevis, le Comore, Tuvalu, Sierra Leone e Togo le bandiere più gettonate, nda) partono per un ultimo viaggio, di solito verso un paese asiatico, lungo le cui spiagge si arenano col favore della bassa marea. Qui vengono spolpati e disossati da migliaia di operai, che armati solo di fiamma ossidrica si danno da fare per estrarre sino all’ultimo pezzo di lamiera. Il resto, fra il 2 e il 5% della stazza di una nave, sono scorie contenenti amianto, piombo e Pcb, che mal gestite si trasformano in minaccia sanitaria e ambientale. Senza contare i pericoli di ogni sorta cui va incontro questa manodopera, il cui lavoro sottopagato consente ai proprietari delle navi di recuperare fino a 400 euro per tonnellata di ferro. Il quadruplo rispetto a quanto avverrebbe nei rari cantieri europei. 

Non sorprendono allora le cifre raccolte dall’ong francese Robin des Bois, contenute nel bollettino trimestrale A la caisse (Da demolire, nda): dopo un aumento nel 2012 dovuto alla crisi economica e alla progressiva sostituzione delle petroliere a scafo singolo con navi a doppio scafo, nel 2013 il numero di navi smaltite illegalmente si è assestato a 1.119 unità. Di queste, 347 battevano bandiera europea o appartenevano ad armatori europei o situati in uno dei paesi membri dell’Associazione europea di libero scambio (Aels). La capofila di questo traffico è la Germania, ma l’Italia non sta a guardare. «Un esempio? Il traghetto “Flaminia” è partito alla fine del 2012 per una destinazione non precisata – racconta Christine Bossard di Robin des Bois – Ha preso la bandiera di Saint-Kitts-et-Nevis e ribattezza to “New York” è finito insabbiato sulle spiagge indiane». Solo nei primi nove mesi del 2013 le navi italiane demolite in condizioni non rispettose dell’ambiente e dei lavoratori sarebbero state 14, contro le 16 del 2011 e le 36 del 2012. A queste potrebbero essere aggiunte le 40 navi dismesse dal 2011 dalla compagnia italo-svizzera Mediterranean Shipping Company (Msc). «Questo inventario è il più completo possibile, anche se qualche nave potrebbe esserci sfuggita – precisa Bossard – Otto sono andate in Bangladesh, due in Cina e una in Pakistan. Ma la metà sono state smantellate fra India e Turchia ». Proprio la Turchia è stata a lungo data come la favorita nella corsa alle spoglie della Costa Concordia. Contrariamente alle voci che vantano la sicurezza dei suoi cantieri, nel paese non mancano episodi tragici, come la recente morte per intossicazione di due operai al lavoro nella sala macchine della ex “Pacific Princess”. 

Tracce perdute 

Interrogata sul fine vita delle navi dei suoi aderenti, la Confederazione italiana degli armatori (Confitarma) dichiara non disporre di dati a riguardo ma precisa: «Probabilmente con l’entrata in vigore della Convenzione di Hong Kong, rafforzata dal recente regolamento dell’Ue, sarà più facile “tracciare” i percorsi delle navi destinate alla demolizione ». In effetti, già oggi esisterebbero disposizioni internazionali capaci di disciplinare il comportamento dei meno scrupolosi fra gli armatori. La Convenzione di Hong Kong per il riciclaggio sicuro ed ecologicamente razionale delle navi è stata adottata nel 2009 ma entrerà in vigore soltanto quando sarà ratificata da 15 paesi proprietari di almeno il 40% della flotta mondiale e dotati della capacità di riciclare non meno del 3% di quest’ultima. Un obiettivo lontanissimo se si considera che ad oggi solo la Norvegia ha ratificato la convenzione e che pochissimi paesi, fra cui Francia, Olanda e Italia, hanno siglato un protocollo d’intenti. Certo, a livello comunitario un regolamento risalente al 1998 vieterebbe l’esportazione di rifiuti pericolosi, quali una nave, al di fuori delle frontiere dell’Ocse. Ma secondo uno studio di impatto realizzato dalla Commissione europea, nel 2009 oltre il 90% delle navi sono state smantellate proprio al di fuori di questi confini, principalmente in India, Pakistan e Bangladesh. È per questo che il Parlamento europeo ha approvato il 22 ottobre scorso un nuovo regolamento, che integra nel diritto europeo le principali disposizioni della convenzione di Hong Kong rendendo in futuro obbligatorio lo smantellamento delle navi battenti bandiera di un paese membro dell’Unione Europea all’interno di strutture “concepite, costruite e gestite in maniera sicura ed ecologicamente razionale”. 

Mercato prezioso 

Un futuro non necessariamente prossimo però, dal momento che il regolamento entrerà in vigore solo quando la capacità di riciclaggio delle installazioni presenti sulla lista europea avrà raggiunto 2,5 milioni di tonnellate di stazza a secco. I più ottimisti promotori del testo ritengono che India e Cina non tarderanno ad adeguare le loro strutture pur di non perdere un mercato. I più critici invece prevedono che l’entrata in vigore del testo non avverrà prima di cinque anni, tempo minimo perché la stessa Europa si doti della capacità necessaria. Oggi, infatti, si conta un solo sito di rilievo, quello di Able in Gran Bretagna, mentre paesi di pur grande tradizione cantieristica come l’Italia sono sprovvisti di strutture e altri, come il Portogallo, praticano lo smantellamento in condizioni simili a quelle riscontrate nei paesi asiatici (basta cercare su Google map la spiaggia di Alhos Vedros, vicino Lisbona, per averne la prova, nda). «Abbiamo più volte proposto al ministero italiano dell’Ambiente di collaborare per simulare una demolizione su territorio nazionale, sia dal punto di vista tecnico che economico – puntualizzano da Confitarma – Purtroppo non abbiamo ancora ricevuto alcun riscontro ». Forse perché insieme alla volontà di collaborare gli armatori, italiani ma anche europei, hanno fatto capire di non voler mettere mano al portafoglio. Invocando effetti nefasti sulla competitività del settore, sono riusciti a far stralciare una tassa inizialmente prevista nel nuovo regolamento proprio per finanziare l’emergere di una filiera di riciclaggio delle navi. Competitività contro ambiente, l’eterno conflitto. 

Andrea Paracchini

Fonte: lanuovaecologia.it

Questa pubblicazione è stata riprodotta con il contributo dell'Unione Europea, nel quadro dei programmi di comunicazione del Parlamento Europeo. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Unimondo.org e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vedi la pagina del progetto  BeEU - 8 Media outlets for 1 Parliament 

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