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Què volen aquesta gent? Fotogrammi di una Barcellona in subbuglio
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Giorni storici questi in Catalogna: a Barcellona é impossibile anche per il più ignaro turista non rendersi conto che qualcosa di grande sta succedendo e che probabilmente nulla sarà più come prima. I muri parlano, traboccanti di manifesti che inneggiano all’indipendenza, alla repubblica, alla liberazione dei “Jordis” (Jordi Cuixart y Jordi Sànchez, presidenti rispettivamente della Asamblea Nacional Catalana e di Òmnium Cultural, due organizzazioni indipendentiste della società civile). Ho parlato con varie persone che vivono qui, amici e amiche provenienti da traiettorie diverse che leggono quanto sta accadendo: si tratta solo della mia personale esperienza e di certo non ha la pretesa di rendere conto della pluralità di posizioni esistenti all’interno della società catalana, né di essere esaustiva rispetto alla grande complessità, dal punto di vista storico, politico e sociale, del momento che si sta vivendo. Credo però che possano emergere alcuni spunti interessanti.
Partiamo dal referendum del primo ottobre. Tutti mi hanno raccontato della grande mobilitazione che c’é stata da parte della società civile. Laia (riporto tutte le testimonianze con nomi di fantasia) mi racconta che per due notti il seggio é stato presidiato da almeno trenta persone che si sono fermate a dormire per evitare che venisse chiuso e che urne e schede venissero sequestrate. Lei vive a Sants, un quartiere con grande tradizione operaia e sempre molto attivo dal punto di vista politico e sociale. Laia fa parte della CUP, il partito indipendentista strettamente legato ai movimenti sociali più critici verso il sistema politico ed economico imperante e ha sempre partecipato in prima persona a tante mobilitazioni e organizzazioni della società civile che lottano per costruire un sistema più giusto ed inclusivo. Mi racconta emozionata di quei giorni, delle tante persone giunte a dare supporto, molte delle quali non aveva mai visto prima nonostante sia tanto attiva e presente nella realtà del barrio. Dell’anziana sua vicina di casa che le ha chiesto aiuto per poter andare al seggio, di uomini e donne arrivati a presidiare il seggio con i loro corpi, delle assemblee previe in cui si sono preparati a resistere in maniera non violenta (seduti e con le mani alzate) qualora si fosse presentata la polizia spagnola a chiudere il seggio. Mi dice che il primo ottobre lo ha passato al seggio e, quando é tornata a casa per riposare un poco, ha visto le immagini delle violenza accadute in altre parti della città e del paese ed é scoppiata a piangere, perché non credeva si potesse arrivare a tanto. Nessuno se lo aspettava, credevano solo si sarebbero presentati per sigillare i seggi. E anche lei, indipendentista convinta, pensa che se avessero consentito un normale svolgimento delle operazioni di voto avrebbe vinto il no. Molte persone hanno infatti deciso di recarsi ai seggi solo dopo aver visto le immagini delle violenze.
Giuseppe e Francesca sono italiani e vivono qui da alcuni anni, mi dicono che sono stati svegliati alle 4 del mattino dalle canzoni della gente in strada arrivata a proteggere il seggio che sta proprio sotto casa loro, in un altro quartiere della città. Alcuni di loro sono saliti a prendere il caffè e a scambiare idee ed opinioni. Loro figlio ha sette anni e non vuole che Giuseppe e Francesca vadano alle manifestazioni, probabilmente traumatizzato dopo che una sua compagna di classe si é presentata a scuola il 2 ottobre con un vistoso cerotto sulla fronte, vittima delle percosse della polizia nelle operazioni di sgombero del seggio dove votavano i suoi genitori.
Anche Alba mi racconta dei bambini, lei lavora in una scuola elementare come insegnante di sostegno. Dice che nei giorni successivi al referendum si notava che c’era in loro preoccupazione e inquietudine. Gli insegnanti hanno fatto un grande lavoro con i ragazzi, chiedendo di parlare in classe di quanto era successo, di come lo avevano vissuto, ed insieme hanno cercato di elaborarlo. “E poi dicono che la scuola catalana sta indottrinando gli alunni”, mi dice arrabbiata. Anche lei é stata tutto il giorno al seggio, anche se non é mai stata un’indipendentista particolarmente convinta, però ha sempre partecipato a tante mobilitazioni a partire da quella per il diritto all’abitare in tempi non sospetti, ancora prima che scoppiasse la bolla immobiliare. L’ho conosciuta alcuni anni fa proprio in strada, ad una manifestazione per un’istruzione pubblica e di qualità.
Quella di questi giorni viene vista come una grande mobilitazione di popolo, anche se si tratta di un popolo molto composito. Marta, anche lei veterana di mille battaglie politiche e sociali, mi racconta delle manifestazioni, della grande partecipazione e del fatto che si vedono persone chiaramente alla loro prima esperienza in piazza. Un’immagine fra tante é quella di ragazzini con le magliette nere di Game of Thrones a pochi passi dalle magliette nere degli anarchici, sempre presenti nelle mobilitazioni in questa città dalla forte tradizione libertaria. I suoi genitori, mi dice, vedono parallelismi tra ció che sta accadendo in queste settimane e l’epoca franchista. Suo padre, un anarchico di vecchia data, racconta di un episodio di quando era piccolo e un agente della guardia civil si avvicinò a sua madre dicendole di “non parlare al bambino nella lingua dei cani”. La “lingua dei cani” era naturalmente il catalano, il cui uso era proibito durante il regime.
Xavi, professore universitario in pensione, mi spiega di come il governo spagnolo ragioni solamente in termini di vertici istituzionali. “Loro sono convinti che commissariando il parlamento catalano e la Generalitat risolveranno il problema. Non si rendono conto che c’é tutto un movimento di popolo che si é rafforzato molto e che non riusciranno a fermare. Non possono controllare e reprimere ogni spazio della vita pubblica, immaginati se dovessero mettere un agente in ogni classe per impedire che gli insegnanti facciano lezione in catalano…Certo é vero che nel porto c’é ancora una nave carica di agenti di polizia dello stato spagnolo, ma mi chiedo fino a che punto possano arrivare a gestire questa situazione”. Quello che sta succedendo in queste settimane, aggiunge, avrà un effetto dirompente in termini di presa di coscienza della società civile, paragonabile a quello scaturito dal movimento del 15M (gli indignados, per intenderci).
Certo é vero che tutti, chi più chi meno, sottolineano il pericolo dato dalla grande eterogeneità del popolo indipendentista, Marta mi dice che teme vi possa essere una grande frattura interna, Laia ha una visione più ottimista e crede che l’obiettivo comune dell’indipendenza prevarrà su ogni altro e che ci sarà spazio per costruire un paese nuovo dove vengano ascoltate e tenute in considerazione anche le voci dei movimenti sociali. Il fermento e la speranza per una nuova repubblica si accompagnano alla paura che la repressione possa generare conflitti anche molto violenti. Mi spiegano poi come non sia affatto giusta la visione di chi li bolla di egoismo e di volere l’indipendenza solo per motivi economici. Laia mi dice che in Catalogna tantissime persone, lei compresa, hanno origini in altre regioni spagnole, genitori o nonni emigrati dall’Andalusia o dall’Estremadura in cerca di un futuro migliore. Quello che sta accadendo qui ha un impatto potenzialmente positivo anche sulle altre regioni, affinché possa esserci un cambiamento forte in tutto il paese sia in termini istituzionali che sociali.
Sono andata a dare un’occhiata alla manifestazione del 21 ottobre: le vie del centro erano gremite di persone, tante bandiere e tanti slogan, “independencia” e “els carrers seran sempre nostres” (le strade saranno sempre nostre), urla e fischi contro le uniche presenze statali: gli elicotteri che volteggiavano in cielo incessantemente (“fuori le forze di occupazione!”, gridavano giovani, anziani e famiglie coi passeggini). La manifestazione, ho letto poi sui quotidiani, si é conclusa con Maria del Mar Bonet, conosciuta cantautrice in lingua catalana. Il suo pezzo “Què volen aquesta gent?” (cosa vuole questa gente?), composto in pieno franchismo per denunciare gli arresti arbitrari da parte del regime, ha commosso più di una persona e ribadito il sentimento di un popolo che, pur con tutte le sue contraddizioni, sta scrivendo la storia.
Michela Giovannini

Dottoressa di ricerca in sviluppo locale, è appassionata di America Latina, popoli indigeni, autogestione, lotte e resistenze politiche e sociali. Ha trascorso periodi di studio e ricerca sul campo in vari paesi. Messico e Cile sono i principali contesti in cui si sono svolte le sue ricerche, dedicate principalmente a varie tipologie di organizzazioni dell'economia sociale e solidale.