Potevamo solo zappare la terra

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Foto: M. Canapini ®

Sebbene la via sia sgombra, l’autista strombazza follemente e pigia forte il gas. Raggiungiamo il confine in due ore scarse. A bordo della corriera conto nove passeggeri: il sottoscritto, una ragazza tedesca coi gomiti rovinati, sette uomini intenti a mangiare pannocchie; giusto il tempo di pulirsi le dita unte sui sedili polverosi e appaiono le strade asfaltate di Phonm Phen. Nel buio della sera, brigate di bambini incrostati vendono statuette di Op Op Gangnam Style. Di prima mattina Savy mi strappa un sorriso sincero, ammettendo di non essere certa di dove si trovi esattamente l’Italia. Ridiamo con gusto, scaldandoci l’umore. Se non fosse per i templi in pietra lungo la strada, per le pagode dorate che brillano all'orizzonte o per il naso a patata dei locali, sembrerebbe quasi di trovarsi in qualche sperduto villaggio del Medio OrienteHijab variopinti, Burqa nerissimi, moschee decorate. Tuk tuk strabordanti di merci e colori schizzano via tra le viuzze di un quartiere decadente. Qualche vacca scheletrica bruca erbacce nei parchetti pubblici. Arunteaksmey racconta incessantemente, con impeto, delle mine antiuomo che, a milioni, soprattutto nel nord, continuano ad uccidere contadini e passanti.

Raggiungiamo un minuscolo villaggio fatto di palafitte e casette di terra ricoperte con foglie secche di bambù. Vorrei capire maggiormente ciò che è accaduto in queste campagne desolate durante il regime di Pol Pot, capeggiante dei famigerati Khmer Rossi, portatori di violenza dal 1975 al 1979. Il gruppo armato è ricordato soprattutto per aver orchestrato il genocidio cambogiano in cui due milioni e mezzo di persone persero la vita per mezzo di esecuzioni e lavori forzati. Tramite i tentativi di riforma agraria i Khmer portarono ad una diffusa carestia, mentre l'insistenza sull'assoluta autosufficienza, anche nella fornitura di medicinali, estranea ai circuiti internazionali, determinò la morte di migliaia di persone a causa di malattie curabili come la malaria. L'accanimento contro gli abitanti delle città e contro i presunti "intellettuali" fu spietato. 

Ancora oggi rimane il regime con la più alta percentuale tra popolazione e numero di morti, oltre ad essere stato uno dei genocidi più cruenti del ventesimo secolo. Aung Yoeurn, un contadino sopravvissuto alla mattanza, mi saluta come un vecchio amico, si schiarisce la voce, poi racconta: “Sono stato deportato più volte. Vivere era uno strazio. Mia moglie è morta di malattia all’interno dei Killing Fields, zone paludose evirate da acquitrini, fango, bestiame. Non potevamo piangere né sorridere, solo zappare la terra, vestiti di nero, coi sandali ai piedi. Uomini e donne. Un amico si è avvelenato per evadere dall’inferno in cui eravamo finiti. La famiglia di mio fratello è stata completamente sterminata. Ci tenevano legati con del filo metallico, il cibo scarseggiava, i piedi gonfi… la fame cronica, le docce non esistevano. Dormivano ammassati sotto un pezzo di lamiera e spesso le guardie di Pol Pot venivano a percuoterci. Non eravamo a conoscenza dei campi di sterminio, ma ogni tanto qualcuno di noi spariva senza lasciare traccia. Del mio gruppo, composto da ventisei individui, sono sopravvissuto solamente io. Ci facevano inginocchiare e con un colpo di zappa sulla nuca riempivano le fosse. Utilizzavano anche canne di bambù, coltelli, spuntoni di ferro. Ancora oggi, guardando i crani delle vittime, dalla circonferenza del foro capisci che utensile hanno usato per ammazzarci”. Ciò che spaventa maggiormente, forse, è sapere che coloro che hanno dato vita al massacro, erano (e sono) persone cosiddette moderne, poliglotte, civilizzate direbbero alcuni, cresciute nel marasma europeo. “Eravamo stremati dalla fatica, ogni giorno infinite ore di lavori forzati. La diarrea ne faceva fuori a centinai, in molti ci siamo curati con le erbe mediche, raccolte nei campi. Ero arrivato a pesare quaranta kg, il fantasma di me stesso. Quando le guardie venivano a svegliarci nel cuore della notte lo facevano con torce accese, poi ce le spegnevano addosso. Alcuni amici sono morti a causa delle infezioni. I peggiori, credimi, erano i bambini Khmer. Occhi pulsanti come macchine, una violenza inaudita: figli di contadini strappati dalle fatiche del mondo rurale. Se non gli ubbidivi ti sputavano in faccia, trucidandoti sul posto. Nemmeno i nostri neonati sono stati risparmiati: venivano sbattuti contri i tronchi degli alberi. Al memoriale un albero indica proprio questo fatto.

Inizialmente, quando i Khmer Rossi sono entrati in Cambogia hanno issato una bandiera bianca, assicurandoci che la pace era finalmente arrivata. Dopo tre giorni è accaduto il contrario; quei pazzi hanno bombardato scuole, ospedali, deportato civili nelle campagne, distruggendo la vecchia società, trascinando la Cambogia nel buio. Ognuno di noi ha perso almeno un famigliare durante il regime. In compenso, alcuni vecchi Khmer mai processati vivono in queste zone, ma non voglio dilungarmi troppo a tal proposito, la paura è tanta, anche a distanza di decenni. Posso solo dirti che dopo lo sterminio tutti i sistemi erano distrutti. La materia, lo spirito, la mente non esistevano più. Abbiamo dovuto ricreare una nuova coscienza collettiva e solo ultimamente alcune comunità rurali sono riuscite a progredire grazie al sostegno di tutti. Però, molti giovani scappano da questo residuo bellico, rifugiandosi in Thailandia o nelle fabbriche di Phnom Phen in cerca di soldi e tranquillità. Non possiamo biasimarli: un’eredità simile è complicata da gestire”. Aung si alza, evita due polli che sguazzano sotto al tavolino, mostra ai presenti una zappa rovinata, la stessa usata ai tempi del regime. Una triste reliquia memore dei tempi andati. Ride, come se avesse appena finito di raccontare una barzelletta troppo lunga. 

Hol Huoy, un veterano di 56 anni, è seduto nel mezzo di una fitta giungla. Ci mostra ciò che è rimasto della sua gamba, tranciata all'altezza del ginocchio. “Ho pestato una mina grossa quanto la mia mano, in un villaggio al confine col Vietnam. Mi trovavo nell’epicentro degli scontri, avevo diciotto anni. Quello squilibrato di Pol Pot ripeteva sempre che una mina è il miglior soldato esistente: non mangia, non dorme e sta sempre all'erta. Ne sono sicuro ... quella mina aspettava me”. Alcuni vecchi si avvicinano, i muri si sgretolano. Pongono tante domande diverse, dai metodi agricoli usati in Italia fino ad analizzare il mio aspetto esteriore. “Perché sei cosi tozzo rispetto a noi? Perché sei così bianco, con la barba folta? Hai per caso del sangue misto? In TV abbiamo visto che gli europei sono alti, biondi, diversi. Tu assomigli più a un cambogiano”. Ora rido di gusto pure io. I tre anziani confermano ciò che un attimo fa fiutavo nell’aria: sono il primo occidentale che vedono e con cui dialogano in vita loro. Vittime innocenti del regime, vissuti sempre qui, segregati tra paludi e risaie e tagliati fuori dal mondo per lunghi anni, per la prima volta interagiscono con un occidentale dall’aria smarrita. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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