Plastica adieu, anzi vaarwel!

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E’ di qualche settimana fa la notizia che, entro il 2020, in Francia saranno messe al bando le stoviglie di plastica. Niente più amletici dubbi tra bicchieri, piatti e posate usa-e-getta da un lato e stoviglie in mater-bi dall’altro, ma un’ufficiale messa al bando dei primi a favore dei secondi. Lo sancisce una legge entrata in vigore lo scorso 30 agosto che dichiara l’improcrastinabile finalità di salvaguardare l’ambiente, anche e proprio mentre ci si concede una pausa caffè, si organizza un pic nic in famiglia, si invitano gli amichetti dei propri figli alla festa di compleanno. Il divieto riguarderà non solo la vendita, ma anche la produzione e la cessione gratuita di questi supporti monodose, che i produttori saranno obbligati a sostituire con materiali organici e biodegradabili. Le misure si inquadrano nella “Energy Transition for Green Growth – Transizione energetica per la crescita verde”, un piano ambizioso che raccoglie le necessità emerse in maniera netta da Cop21, la conferenza sul clima tenutasi proprio a Parigi lo scorso dicembre.

Non sono più quindi soltanto le shopper in plastica ad essere messe al bando (e comunque ancora troppo diffuse nei mercati del mondo), ma è una virata che tiene in considerazione il fatto che ogni anno, in Francia, vengono prodotti quasi 5 miliardi di bicchieri di plastica e solo l’1% viene riciclato. E a livello mondiale la situazione non migliora: ogni anno finiscono in mare dai 5 ai 12 milioni di metri cubi di plastica, come ci ricorda Maria Rita D’Orsogna di Comune-info.

Si direbbe che il punto di vista degli ambientalisti sia insindacabile in questo caso, eppure ci sono voci che si tirano fuori dal coro di acclamazioni entusiaste che, nel mondo dei sostenitori di un’economia e di stili di vita green, ha accolto il divieto. Alcuni, come ad esempio la Pack2Go Europe, un’organizzazione che rappresenta le aziende di imballaggi a livello europeo e che non è esente da significativi interessi economici che ne condizionano l’opinione, sostengono che un provvedimento di questo tipo violi la libera circolazione delle merci e che per i consumatori si tradurrà di certo in un rincaro dei prezzi. Altri invece sono convinti che l’utilizzo di prodotti biodegradabili incentiverà la maleducazione: sapere che quel piatto o quel bicchiere si dissolveranno in breve tempo potrebbe indurre molti a non differenziarli e ad abbandonarli impunemente nell’ambiente, creando in ogni caso danni ingenti sia in termini di compostaggio dei rifiuti organici sia in termini di incuria. Su questa riflessione anche Unimondo si era già espresso per una questione analoga, considerando però il fatto che i maleducati in genere non lo diventano ma lo sono e lo restano e quindi, accanto ad attività di educazione alla cittadinanza e al bene comune sulle quali rimane in ogni caso necessario investire, vale comunque la pena promuovere l’utilizzo e la diffusione di prodotti che abbiano il minor impatto ambientale possibile, anche e soprattutto nel caso subissero usi (o disusi) impropri.

Prevenzione quindi da un lato, e idee per tamponare dall’altro. Tra queste ultime si fa notare l’interessante progetto di un ventenne olandese, che parte proprio dalla considerazione che la gran parte della plastica prodotta nel mondo si concentra in 5 grandi discariche oceaniche create dalle correnti e aventi dimensioni terrificanti, le cosiddette “garbage patches”. L’autore di questa invenzione dal basso è Boyan Slat, intraprendente comunicatore e inventore di una barriera galleggiante di oltre 2 km che convoglia la plastica in un compattatore alimentato con l’energia solare. Il suo crowdfunding gli ha permesso di raccogliere più di 2 milioni di dollari, cifra che porterà all’installazione per la fine dell’anno del primo sistema di raccolta con queste caratteristiche, di fronte alle coste meridionali del Giappone (isola di Tsushima). Le premesse non sono da sottovalutare: il sistema potrà rimuovere fino al 42% della plastica che galleggia in mare e il progetto, nonostante le perplessità di biologi e oceanografi raccolte da «The Guardian» e relative soprattutto alla sostenibilità e resistenza dell’impianto e ad eventuali effetti collaterali sugli ecosistemi marini, merita tutto il successo riassunto dall’ambizioso nome che porta: The Ocean Cleanup. Lo ripetiamo ancora una volta, lavorare per la prevenzione dell’inquinamento ambientale è sicuramente la strada più sensata da percorrere, ma è necessario anche fare i conti con la realtà e, lì dove ormai i danni sono compiuti e anzi hanno accumulato le loro indistruttibili conseguenze nei polmoni della Terra, ogni azione che produca un miglioramento dello status quo deve essere la benvenuta.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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