Patagonia di passi e lezioni

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Partire sottovoce per un viaggio in Patagonia è stata una scelta custodita. Per molti solo il nome evoca momenti epici della storia australe dell’uomo e dell’alpinismo, stuzzica una voglia di esotico che si stempera negli avvistamenti della fauna locale, richiama climi ostili a sfondo di paesaggi disabitati. Non volevo che fosse nulla di tutto questo: mi bastava che fosse un viaggio di cammino, di passi e pensieri verso orizzonti che sì, questo sì, ridisegnano i contorni delle aspettative e delle meraviglie. Ma che disabitati non sono affatto, sono piuttosto diversamente densi rispetto alle sovraccariche città in cui siamo arenati a vivere. E se di questo viaggio dovessi brevemente raccontare qualcosa, sceglierei un paio di spunti, non so se essenziali, di certo tra i più preziosi che porto a casa.

Il primo fa perno proprio su un fraintendimento. Vorrei ricordarle che non sempre ciò che è legale è giusto, e non sempre quello che è giusto è legale. Mentre Josephine, guida ambientale nella provincia del Chubut, racconta aneddoti di vita argentina, mi torna in mente la frase riportata da Tito Barbini nel suo Le nuvole non chiedono permesso, tratta dalla lettera che Adolfo Perez Esquivel aveva indirizzato al signor Benetton. Sì sì, lui, quello degli United Colors. Sembrerebbe una disquisizione filosofico-giuridica tra vecchi amici, davanti a un sigaro e un whiskey, ma non lo è affatto. E’ invece una denuncia all’ingiustizia, voce di quello spirito rivoluzionario che sguscia sui muri e nelle piazze, da Buenos Aires a Ushuaia, e a volte anche nelle lettere che ricompaiono alla memoria mentre la strada corre diritta per chilometri e chilometri. Costeggia lunghissimi steccati di legno, tra un palo e l’altro si tendono 7 fili di metallo. Sono i confini che delimitano le estancias (fattorie) e gli ettari di terreno di pertinenza, e più sono estesi più il proprietario “tiene filo”. Filo per recintare i suoi possedimenti, filo che, come ci spiega Josephine, misura a metri la sua ricchezza, ma a me fa pensare anche ai fili delle lane e dei maglioncini, ai fili spezzati delle vite indigene che abita(va)no terre impunemente comprate a costi irrisori da grandi aziende per alimentare business miliardari a partire dai latifondi dei filati, senza rispetto alcuno per storia, tradizioni, presenze che su quelle terre avevano diritto di restare. L’indignazione sale svelta sul termometro delle ingiustizie e di certo non la mitiga la lettura di United Business of Benetton (Pericle Camuffo), sufficiente a limitare considerevolmente acquisti irresponsabili per il nostro guardaroba. Se non l’avete ancora sfogliato, il consiglio è di farlo presto.

Il secondo spunto si lega a un’altra questione che mi è cara, radicata nel valore profondo e imprescindibile della comunità per rendere un semplice agglomerato di esseri viventi una società evoluta, sia essa umana o animale. Siamo nella Penisola di Valdes, un nodo che sbuca sulle mappe un paio di ore di volo a sud di Buenos Aires. Nel 1999 è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità: non è comune che questo riconoscimento venga tributato a un parco provinciale, dove gran parte delle terre non è di proprietà dello Stato ma appartiene a privati. Ma qui, dopo anni di richieste e di riflessioni, adesso sono gli stessi proprietari ad aver accolto la responsabilità e il delicato compito di tutelare la terra e i suoi abitanti con la cura e le attenzioni che meriterebbero ovunque. Sono diventati i custodi rurali del parco in un’alleanza che, oltre alla ricchezza inestimabile della biodiversità della sua flora e fauna, ospita in sicurezza due specie in via di estinzione che qui si riproducono, il leone marino e la balena franca australe. Un mammifero di oltre 50 tonnellate quest’ultima, che ogni anno percorre dalle acque dell’Antartico oltre 4000 chilometri per riprodursi e partorire nel golfo di fronte a Punta Piramides. Curiosa, pacifica e con un’innata fiducia nel prossimo, la balena non ha abbandonato quei tratti caratteriali che ne hanno anche sancito la condanna (l’uomo poteva infatti avvicinarlesi con estrema facilità e cacciarla senza sforzo eccessivo), e anzi cela ancora oggi nel mistero delle sue comunicazioni subacquee la realtà di una società articolata e complessa, composta da creature profondamente ancorate a un’intelligenza che chiamerei emotiva, di cura e solidarietà.

Citando allora in chiusura le parole note di Marcel Proust, se il “vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi”, è vero anche che l’avere occhi aperti sulle storture così come sugli insegnamenti che incrociamo sui nostri cammini, in viaggio come a casa, rimane la caratteristica essenziale di chi si muove nel mondo, indipendentemente dalle distanze percorse. Ed è un allenamento costante da regalare al corpo e alla mente, un allenamento che, se si lascia spazio al giusto spirito, nuovi luoghi e nuovi incontri contribuiscono senza dubbio ad attivare. 

Un ringraziamento speciale va al premuroso coordinamento di Marco Balleggi e ai componenti del gruppo di Viaggi e Avventure nel Mondo che tra fine novembre e inizio dicembre 2016 si è mosso, con occhi e cuori spalancati, tra le montagne, i boschi, le acque e le molteplici creature che ne fanno la propria casa, percorrendo le strade, le rotte e i sentieri della Patagonia.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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