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Orbán e la memoria offuscata sulla rivoluzione ungherese del 1956
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Paragonare grossolanamente la memoria della sanguinosa e brutale invasione sovietica del ’56 dell’Ungheria alle percepite ingerenze odierne dell’Unione Europea negli affari interni dello Stato? Fatto!
Ricevere il cortese declino da parte dei rappresentanti di 27 dei 28 Stati membri dell’UE, di cui l’Ungheria è parte dal 2004, a partecipare alla commemorazione del sessantesimo anniversario della rivoluzione ungherese? Fatto!
Trasformare una giornata di festa e di ricordo della repressione sovietica della rivoluzione del 1956 in un nuovo avvenimento di sangue a seguito della contestazione del leader politico con urla e fischi? Fatto!
Lo scorso 23 ottobre Viktor Orbán, il premier nazionalconservatore ungherese, in un solo colpo è riuscito a incassare tante critiche alla sua leadership. Un’impresa non facile per un’occasione nazionale (e non) di commemorazione e ricordo dell’eroico sacrificio di tanti magiari nel non troppo lontano 1956.
A 60 anni dalla messa in moto di un vasto movimento di riforma del sistema politico esistente, volto alla realizzazione di una “via nazionale al socialismo”, Kossuth tér, la piazza che ospita il Parlamento ungherese, è stata nuovamente gremita di cittadini. Sul palco non ha preso la parola un nuovo Imre Nagy, lo storico leader che ha incarnato la rivolta pagando questa scelta con la vita, ma un altrettanto popolare Viktor Orbán, Primo ministro ungherese in maniera continuativa dal 2010 dopo una decennale gavetta nelle file dell’opposizione. Il ricordo dei martiri del 1956 ha allora preso una piega a dir poco particolare. Nel discorso di Orbán non ha spazio la memoria della repressione nel sangue della sollevazione operata dagli uomini dell’Armata Rossa; al suo posto le consuete invettive all’Unione Europea e alle sue critiche al governo ungherese per le sempre più vistose deroghe ai valori democratici costitutivi dell’UE. Con la frase a chiusura del discorso, “Noi non ci lasceremo sovietizzare da Bruxelles e dalla UE, noi resteremo nazione sovrana, lo vogliamo oggi come lo volemmo nel ‘56”, appare scemare nell’immaginario degli uditori in piazza il ricordo immortalato nelle foto di repertorio o di qualche vecchio documentario dei carri armati sovietici a Budapest, oltre che il dolore dei familiari uccisi nella “rivoluzione”. I morti furono 2.700, migliaia i feriti e quasi 250.000 gli ungheresi (il 3% della popolazione) che abbandonarono il Paese e che, come profughi prima e rifugiati poi, furono accolti in altri Stati a ovest della cortina di ferro. Un accadimento che segnò profondamente la memoria europea ma che appare oggi cancellata nel Paese e nella sua leadership.
La lotta per la libertà ricercata da Orbán e dal suo partito, la Fidesz, non è la stessa di quella ricercata 60 anni fa. Le parole del Primo ministro di alcuni giorni fa sono probabilmente apparse ben distanti a quelle istanze di comprensibile rinnovamento espresse da Nagy. Come allora, la responsabilità dei disordini, registrati oggi in niente più che urla e fischi di contestazione rivolti al palco, è stata attribuita a “facinorosi”, se non antipatriottici, che sono stati allontanati dalla piazza con la violenza; molti contestatori malmenati, tra cui il noto storico Krisztian Ungvary, anche a bordo di ambulanze.
Un’azione grave, quest’ultima, che si somma a quei comportamenti e a quelle norme antidemocratiche duramente criticate da Bruxelles negli ultimi anni. Le limitazioni alla libertà di espressione, se contraria alla “dignità della nazione ungherese”, e alla libertà di stampa, come ha ben testimoniato la vicenda del noto quotidiano Népszabadsàg, critico verso il governo, acquistato e poi chiuso dal magnate vicino al premier, Loerinc Mészaroes. Lo sbilanciamento dei poteri a favore di quello esecutivo e in particolare la limitazione di quelli della Corte costituzionale, che non può intervenire su disposizioni nazionali o europee in vigore prima dell’approvazione della Costituzione ungherese del gennaio 2012. Libertà, patriottismo, principi cristiani sono i valori che Fidesz ha rivendicato dinanzi all’UE in occasione della costruzione del cosiddetto “Muro antimigranti” e della contrarietà a un accordo su quote di distribuzione dei migranti nei diversi Paesi dell’Unione.
La situazione di Orbán è tuttavia ben simile a quella del 1956 in quanto a isolamento internazionale. Ad eccezione del capo di Stato polacco, Andrzej Duda, espressione di una analoga posizione euroscettica che però poco disdegna i copiosi fondi economici erogati da Bruxelles agli ex Paesi socialisti dell’Europa dell’Est, nessun leader europeo ha presenziato alla cerimonia per l’anniversario della rivoluzione ungherese. Una scelta simbolica ma anche significativa. Allora la richiesta di aiuto di Nagy all’Europa dopo la decisione dell’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e della scelta neutrale del Paese del primo novembre 1956 cadde nel vuoto. Oggi l’UE, in attesa di un vero riscatto del popolo ungherese, volta le spalle al governo che lo scorso 2 ottobre ha inscenato il referendum proprio per consentire al suo popolo di esprimersi, ovviamente per rigettare, il sistema di quote UE per la ricollocazione dei rifugiati nel continente. Un vero e proprio fiasco per il governo che ha visto il 98% dei voti appoggiare la posizione di Orbán ma con una partecipazione ben al di sotto del 50%: un’astensione che pesa come un voto politico sull’azione di governo.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.