Onu: alla ricerca della nuova agenda globale post-2015

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Mancano 665 giorni alla scadenza degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio dell’ONU. La campagna del millennio che ha responsabilizzato la società civile nel chiedere ai propri governanti di onorare gli impegni sottoscritti è ormai agli sgoccioli. La fine del 2015 porterà con sé una miriade di dati e di resoconti sui “Goal” (gli “Obiettivi”) raggiunti o sui progressi ottenuti per la riduzione della povertà nel mondo, ma già appare evidente che il piano globale ideato nel 2000 non si è realizzato appieno. Per questa ragione inizia ad essere modulata e dibattuta nelle stanze dei bottoni della governance globale la nuova proposta per un’agenda globale post-2015, seppure la sua ispirazione ideale e i contenuti rimangano ancora ignoti. Certo è che le proiezioni dei dati rilevati in questi anni di mobilitazione e azione per il raggiungimento degli obiettivi del millennio non potranno non essere tenute in conto, come anche la crisi sistemica economico-finanziaria ancora in corso in buona parte dei Paesi del nord del mondo e le ricette di austerità messe in atto per contrastarla.

È in tale contesto che il 20 gennaio di quest’anno, nel giorno in cui gli Stati Uniti celebravano il Martin Luther King Day, la Rappresentanza Permanente Italiana all’ONU e l’Istituto Italiano di Cultura di New York hanno voluto affrontare l’agenda globale post-2015 secondo questo doppio binomio di crescita e sviluppo, diseguaglianza e governance globale, nella cornice del Palazzo di Vetro e alla presenza di relatori autorevoli come il premio Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz, il direttore generale del Ministero dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Barca e, nel ruolo di moderatore, Michael Doyle, docente della Columbia University e con incarichi all’interno del Segretariato Generale dell’ONU. La coincidenza temporale non era casuale. Secondo Stiglitz la giustizia sociale “sognata” dal reverendo King era concepita in termini ampi, non mirando soltanto ad abbattere la segregazione razziale, ma puntando a una maggiore eguaglianza e giustizia per tutti gli americani. Non per nulla la manifestazione del 28 agosto 1963, nella quale fu pronunciato il noto discorso “I have a dream”, era stata chiamata “Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà”. Per ogni americano il 20 gennaio è il giorno del servizio, ossia in cui si mette al servizio della comunità.

È secondo analoga ispirazione che l’incontro ha voluto dare un contributo alla riflessione crescente sugli obiettivi e sugli strumenti da mettere in campo per costruire un mondo migliore in cui vivere. Se non altro dinanzi all’aumento globale delle disparità dei redditi tra ricchi e poveri: “Oggi tutti cominciano a preoccuparsi perché si stanno creando situazioni di grande tensione sociale e temono che la democrazia sia in pericolo” ha affermato Stiglitz, mettendo per un momento da parte le ragioni dell’equità quale motore della trasformazione della comunità internazionale. La necessità di “disinnescare subito la bomba atomica della disuguaglianza” definita un’emergenza, come se già l’immagine della deflagrazione nucleare non fosse stata sufficientemente allarmante, ha consentito al premio Nobel di scandire chiaramente che “uno sviluppo sostenibile non può essere raggiunto ignorando le disparità estreme”. Quasi una beffa, o meglio una rivincita, verso tutti quelli che per anni hanno liquidato i suoi studi e gli appelli alla lotta contro le diseguaglianze come una sfida ideologica, se non radicale, dell’accademico. “Adesso anche il Fondo monetario ha posto le diseguaglianze al centro della sua agenda”, ha dichiarato Stiglitz, “i governi si accorgono che devono intervenire e si comincia a capire che cercare di fissare alcune regole globali sul modo di trattare commercio, investimenti, attività finanziarie, non è un esercizio ozioso”.

La sua ricetta per le future politiche globali esorta a perseguire il proposito di porre al centro dell’attenzione le persone e non gli Stati, come è stato fatto con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, e di lottare contro l'ineguaglianza estrema che mette in pericolo la stabilità di qualunque Paese ed è determinata tanto dalle forze economiche quanto dalle scelte politiche dei governi. Se il raggiungimento della completa uguaglianza non può essere un obiettivo credibile, è l’estrema ineguaglianza che deve essere attaccata per i suoi effetti negativi sulla stessa economia, per la disparità nelle opportunità e la conseguente inefficienza economica e riduzione dello sviluppo. Già nella prefazione del suo libro “Il prezzo della diseguaglianza”, parlando degli Stati Uniti quale terra di opportunità per tutti, un aspetto profondamente radicato nei valori americani, Stiglitz scriveva: “Le possibilità, per un cittadino americano, di farsi strada dal basso verso l’alto sono inferiori a quelle dei cittadini degli altri paesi industrialmente avanzati. E la lotta alle diseguaglianze e all’ingiustizia, alle vecchie e alle nuove povertà dovrebbe essere la priorità per qualsiasi riformista nostrano, perché senza inclusione sociale non esiste una società degna di questo nome”.

Una visione diametralmente opposta a quella di chi in questi anni ha promosso e attuato politiche di austerity per far fronte alla crisi, che già lo scorso anno in un’intervista Stiglitz aveva liquidato con la sentenza “è come la medicina medievale che pretendeva di curare i malati a furia di salassi, togliendogli sempre più sangue”. Che sia la metafora più azzeccata per descrivere le attuali ricette di austerità?

Miriam Rossi

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