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Nucleare, occorre più consapevolezza
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“Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia”, così Niccolò Machiavelli intitolava il secondo capitolo del terzo libro dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”. Molti, nella storia, lo hanno preso in parola: per disorientare il nemico bisogna mostrarsi imprevedibili, pronti a tutto, capaci delle azioni più sconsiderate. Così – almeno stando alle ricostruzioni – la pensava anche Richard Nixon, sul finire degli anni 60. Si dice che il Presidente degli Stati Uniti avesse elaborato una vera e propria “teoria del pazzo”. Aveva dato ordine ai suoi servizi segreti di far trapelare alle autorità sovietiche che l’URSS doveva stare attento a come si comportava perché il Presidente Nixon era pazzo, incontrollabile; nessuno lo avrebbe fermato nello scatenare una guerra nucleare se il nemico provocava eccessivamente.
Trump ha ripreso questa teoria in relazione alla crisi nucleare nord coreana. Bisogna far paura a Kim. Dimostrarsi determinati fino alla follia. Promettere distruzioni atomiche, muovere le porta aerei. Così Kim, terrorizzato, si piegherà. In quest’ottica forse si capiscono le perplessità dei generali che si dichiarano pronti a non seguire un ordine “illegale” di un Trump pazzo che in 5 minuti potrebbe lanciare un attacco nucleare preventivo contro il “regno” eremita dell’estremo Oriente.
Così la corsa agli armamenti che, dopo una breve pausa tra gli anni 80 e 90, è ripartita più veloce che mai, con un aumento esponenziale delle spese militari, con l’intenzione di “riammodernare” gli arsenali, un eufemismo per dire che nuovi ordigni sempre più “maneggevoli” e precisi sono fondamentali. Finchè non arriverà – sperando che non sia già arrivato – il pazzo vero. Pronto a sparare il primo colpo.
Qualcuno ritiene invece che la vera follia stia invece nella stessa esistenza delle armi nucleari. Qualcuno vorrebbe abolirle: è un pazzo? Un utopista? Papa Francesco è su questa linea, riproponendo la strada del “disarmo integrale” secondo le parole che Giovanni XXIII proponeva 50 anni fa. Nel discorso ai partecipanti al convegno "Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, tenutosi in Vaticano il 10 novembre scorso, il Papa ha detto fra l’altro: “Le relazioni internazionali non possono essere dominate dalla forza militare, dalle intimidazioni reciproche, dall’ostentazione degli arsenali bellici. Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, altro non generano che un ingannevole senso di sicurezza e non possono costituire la base della pacifica convivenza fra i membri della famiglia umana, che deve invece ispirarsi ad un’etica di solidarietà”.
Se ragioniamo semplicemente in termini geopolitici o di equilibri strategici, sembra abbastanza evidente quanto il disarmo nucleare sia una strada in salita. Spesso questa visione non riesce a delineare un quadro di insieme. Per esempio il volume 9/2017 dell’autorevole rivista Limes era dedicato ai “Venti di guerra in Corea”: gli articoli erano tutti molto interessanti, ma nessuno trattava la questione ecologica: già i test atomici hanno gravi conseguenze ambientali, figuriamoci lo scoppio di una bomba vera. Tuttavia un approccio esclusivamente geopolitico fatica ad evidenziare questo terribile risvolto del nucleare.
Ma qualcosa si muove. Il 7 luglio scorso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato a larga maggioranza il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, il primo strumento giuridico vincolante non solo per vietare l’utilizzo di tali armamenti, ma anche per giungere alla loro progressiva eliminazione. Per entrare in vigore il Trattato deve essere ratificato da almeno 50 Paesi. Questa notizia sarebbe una grande svolta per l’umanità. Peccato che nessuno degli Stati possessori di armi atomiche abbia partecipato ai lavori, così come quasi tutti i Paesi Nato o come il Giappone o l’Australia. L’Italia è in questo gruppo non solo perché fa parte dell’Alleanza atlantica, ma perché “ospita” sul suo territorio poco meno di 50 ordigni pronti per l’uso. Si capisce allora perché il cammino del Trattato sia davvero impervio.
Forse bisognerebbe cambiare prospettiva, continuando certamente a lavorare in sede Onu, ma ripartendo dai comuni cittadini. Nei decenni scorsi anche la gente più semplice sapeva del pericolo incombente. Aveva paura, ma era più consapevole. Perché le armi nucleari hanno davvero determinato una svolta storica per l’umanità. Negli anni 50, filosofi, scienziati, attivisti, erano in prima linea per far capire come già l’esistenza della bomba fosse un punto di non ritorno: da questa esigenza nasce il “Manifesto Russell Einstein” del 1955. Nel 1958 usciva un decisivo volume del filosofo tedesco Karl Jaspers intitolato “La bomba atomica e il destino dell’umanità” in cui si delineava il cambiamento antropologico determinato dal nucleare. Jaspers critica l’Onu, ma ugualmente scrive: “L’ONU mostra all’opinione pubblica mondiale qualche cosa in più della diplomazia dei singoli Stati. Un organo dell’umanità – sia pure ancora miserabile – si mostra all’umanità stessa. Diventa più evidente che cosa sia la poderosa idea della pace e dell’unità fra gli uomini...”.
Riassume bene la nostra attuale condizione il teologo tedesco Moltmann che riprende Jaspers: “Hiroshima ha cambiato radicalmente la qualità della storia umana: il nostro tempo è diventato tempo a termine. L’epoca in cui viviamo è l’ultima del genere umano, perché viviamo in un tempo in cui in qualsiasi momento può sopravvenire la fine dell’umanità. (…) Se l’età nucleare è l’ultima dell’umanità, allora la lotta per la sopravvivenza è una lotta per il tempo. Combattere per la vita significherà combattere contro la fine nucleare. (…) La lotta per differire la fine è lotta permanente per sopravvivere: una lotta senza vittorie, una lotta che, nel migliore dei casi, non avrà fine. (…) A differenza di una volta, oggi la vita del genere umano non risulta più garantita dalla natura, ma deve essere programmata mediante una precisa politica di sopravvivenza”
Oggi forse si dà per scontato, in maniera del tutto inopportuna, che le armi nucleari non verranno usate. In questi ultimi mesi neppure le notizie provenienti dalla Nord Corea – e le parole di Trump – non sembrano avere svegliato l’opinione pubblica. Sarebbe invece necessario ridestare l’interesse delle persone. Soltanto un movimento dal basso può almeno far mantenere all’ordine del giorno l’ipotesi “disarmo”.
Opportunamente allora quest’anno il premio Nobel per la pace è stato attribuito a ICAN cioè alla campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, nella consapevolezza che questa battaglia può essere vinta con un’azione collettiva. Proporre di impegnarsi in questa utopia può sembrare assurdo, in un momento storico in cui qualsiasi progetto che vada oltre il piccolo cabotaggio individuale sembra naufragare sugli scogli della chiusura nel privato. Cosa possiamo fare noi? Eppure soltanto le grandi idee di futuro possono scaldare ancora i cuori. Occorre conoscenza e sensibilità. La mobilitazione infatti continua con varie iniziative.
Unimondo si è occupato molto spesso di questi temi con articoli originali e con rilanci ripresi da altri siti partner, perché il pericolo delle armi atomiche è qui e ora. Non è lontano da noi.
Articolo parzialmente pubblicato sul “Trentino”
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.