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Non ci crede nessuno (alla pace)
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Foto: Unsplash.com
C’è che non ci crede nessuno, ecco che c’è.
Non ci credono gli ucraini, ovvio. Loro giurano e spergiurano che Mosca “vuole solo ingannare gli Stati Uniti" e guadagnare tempo per una nuova offensiva. Soprattutto, non hanno alcuna intenzione di cedere terra e sovranità, dopo tre anni di morti.
Non ci crede Trump, perché non gli interessa nulla di Kiev e dei suoi diritti. Lui crede solo al tentativo di chiudere in fretta la pratica, incastrando gli europei in una infinita e costosissima guerra fredda e ricominciando a fare affari con Mosca.
Non ci credono gli europei, i grandi esclusi dall’incontro, nonostante tre anni di battaglie “conto terzi” e dopo aver generato una “retorica del nemico” che vede nella Russia la ragione e l’alibi per un futuro riarmo feroce.
Soprattutto, però, al fatto che questi strani colloqui in Alaska con Trump possano portare ad una pace vera e quindi giusta fra Kiev e Mosca, non ci crede Vladimir Putin. Lui, a fare la pace proprio non pensa e non perché sia particolarmente cattivo. No, non ci pensa semplicemente perché per lui – come per la stragrande parte della classe dirigente russa – l’Ucraina non esiste. E quindi, per quale motivo deve fare la pace?
Continuiamo a guardare a questa terribile guerra dimenticando l’elemento più vero: questa è una guerra coloniale. E come tutte le guerre coloniali sfugge alle logiche della convenienza o della strategia. Soprattutto lascia zero spazio al negoziato. Vero: Mosca la racconta in modo differente. Putin ha attaccato Kiev e ha combattuto in questi 1.267 giorni, spiegando al Mondo di voler “ricostruire i confini di sicurezza” attorno a sé, minacciati dalla decennale avanzata senza accordi e regole della Nato. Cosa anche vera. Ma la pancia profonda della guerra, le ragioni reali, affondano nella storia imperiale russa e nell’incapacità che abbiamo avuto – come comunità internazionale e come Unione Europea prima di tutto – di modificarla, di farla cambiare, rassicurando la Russia e mettendo in sicurezza l’idea di uno “stato ucraino”, a partire dal 1991.
Facciamo degli esempi. Prendiamo dei nomi, in ordine sparso: Gogol’, Babel’, Grossman, Bulgakov. Questi noi li riteniamo grandi della letteratura russa. In realtà, sono ucraini. È una cosa che ricordiamo raramente. Eppure, gli elementi per capire li abbiamo davanti agli occhi. La classe dirigente moscovita, che si tratti dell’antica nobilità zarista, della successiva nomenklatura sovietica o dell’attuale gruppo di potere, vive nel mito della Grande Russia, quella teorizzata da Pietro il Grande nel 17mo secolo. L’Ucraina fa fisicamente, territorialmente, culturalmente parte di questo sogno e per l’attuale presidente Putin - come per i suoi predecessori e per larga parte dei suoi oppositori - un’Ucraina indipendente banalmente non può esistere. Non a caso, ce lo racconta la storia, per due secoli Mosca ha tentato di annientare la cultura ucraina, provando ad eliminare ogni elemento, ogni cosa che potesse creare un’identità. Lo ha fatto arrestando o uccidendo gli intellettuali, costringendo un intero popolo a rinnegare la propria lingua. Il russo è “lingua imposta”. Le case della cultura ucraina nel diciannovesimo secolo sono state rase al suolo e chi si ostinava ad usare l’ucraino come lingua è stato perseguitato, incarcerato, ucciso. Questa guerra attuale, nei disegni di Putin, deve solo ristabilire le cose per quello che sono: l’Ucraina deve tornare colonia. Non a caso, il Cremlino ha parlato da subito e sempre di “operazione speciale di polizia”, quasi si trattasse di un affare interno e non dell’invasione di uno stato sovrano.
Ora, in queste condizioni, credere che l’incontro fra Trump e Putin in Alaska porti a qualcosa di buono è sinceramente ridicolo. Dal punto di vista Ucraino, il negoziato fra i due è la certificazione della condanna a morte. Il maggiore alleato, Washington, quello che da sempre ha sostenuto il riarmo del Paese e promesso un futuro della Nato, dice esplicitamente che da adesso la pace si può raggiungere riconoscendo alla Russia il possesso di parte delle terre invase. Non c’è possibile vittoria militare. Non c’è pressione politica o economica. C’è solo da smettere di sparare dichiarandosi perdenti. E’ la fine di ogni traccia di sovranità e rende folle la morte di centinaia di migliaia di giovani ucraini al fronte.
L’incontro, però, è la formalizzazione di altri morti: l’Onu, ad esempio, nemmeno considerato come possibile “mediatore”. Trump del Palazzo di Vetro non sa che farsene, è lui il nuovo “faro della pace”. Lo scavalcamento - che è pari a quello in atto in Palestina - è un ulteriore gradino dell’ormai breve scala che pare portare le Nazioni Unite nella soffitta della storia. Addio diritti umani e diritto umanitario: torna a contare solo chi è più forte.
Nella soffitta accanto - e altrettanto in mezzo alla polvere - sono finite l’Unione Europea e l'idea di Europa in genere. È patetico il ribadire di alcuni governi “che senza l’Ucraina il negoziato non si può fare”. Trump e Putin si sono fatti una risata. Il Vecchio Continente non conta nulla e non riesce nemmeno a cogliere l’occasione per rifondare la propria politica, sganciandosi da un alleato - gli Stati Uniti - sempre più aggressivo, ostile e pericoloso. La Commissione Europa insiste da mesi nell’indicare nella Russia il “grande nemico”. I dati e i fatti sembrano suggerire storie e target differenti.
Questo è quanto dobbiamo aspettarci nei prossimi giorni. In Alaska concretamente non accadrà nulla, salvo miracolose e geniali invenzioni dell’ultima ora. La guerra proseguirà, con altre morti e nuove distruzioni. Il Mondo, però, non sarà più quello di prima e l’impressione è che non sarà migliore. È questa l’unica cosa davvero importante.
Raffaele Crocco
Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009.






