Nicaragua, un conflitto che non vede una fine

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Dal 18 aprile di quest’anno il Nicaragua non é più lo stesso. Chissà se e quando si riprenderà. Una crisi feroce ha cambiato il volto di uno dei paesi più pacifici, accoglienti e turisticamente attrattivi della regione latinoamericana. Considerato un paese sicuro, fatto di gente semplice, solare, città coloniali ben conservate, un’economia basilare ma in rapida crescita, avendo registrato un +4,9% nel 2017. Secondo le proiezioni della Comisión Económica para América Latina y el Caribe, il Nicaragua nel 2018 avrebbe avuto il terzo tasso di crescita più alto tra tutti i paesi latinoamericani, dopo Panamà e la Repubblica Domenicana. Le cose, come sappiamo, purtroppo, andranno diversamente.

La crisi ha radici più lontane nel tempo. Da almeno una decina d’anni l’attuale presidente Daniel Ortega ha iniziato ad adottare comportamenti repressivi nei confronti di tutte le forme di manifestazione contro il suo governo, con azioni che progressivamente limitavano la libertà di espressione del popolo. Gli stessi attivisti di Gioventù Sandinista, da idealisti socialisti e riformatori, si sono trasformati in picchiatori seriali, tutelati dal partito al potere, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). Colpo dopo colpo, gli sporadici atti di repressione sono entrati negli ordini naturali delle cose, fino a divampare in focolai sempre più violenti.

L’indignazione del popolo nicaraguense deriva anche da importanti fatti di cronaca: la prima settimana di aprile scoppia un vasto incendio nella riserva biologica Indio Maiz, polmone verde immenso del Centro America, sul quale l’intervento del governo é lento e sommario. Arrivano proposte d’aiuto dal Costa Rica che il governo rifiuta, e gli ambientalisti che scendono in strata a protestare vengono aggrediti. Perché? Forse perché quelle terre, sotto il vigile controllo di organizzazioni internazionali di protezione ambientale, non permettavano più alle imprese del presidente di lucrare sulle vendite di legname. Ortega negli anni é diventato uno degli imprenditori più potenti del paese, proprietario di aziende e canali televisivi, ben diverso dall’Ortega sandinista di quasi 40 anni fa. Precedentemente, lo stesso Ortega era stato accusato di sequestro e abuso sessuale di una minorenne, evento che aveva scosso ulteriormente la popolazione nicaraguense.

Il detonatore della crisi é, irreversibilmente, scoppiato il 18 aprile di quest’anno, quando una folla di studenti, pensionati, imprenditori, in maniera civile, si riversa nelle strade di Managua per manifestare contro la controversa riforma pensionistica, che intendeva aumentare i contributi all’Istituto Nicaraguense di Sicurezza Sociale (INSS) di lavoratori e datori di lavori, direttamente dalle loro buste paga, e imponeva una tassa del 5% sulle pensioni, come paracadute per coprire i casi di corruzione milionari dell’amministrazione Ortega. La manifestazione, si estende presto ad altre città, ma viene brutalmente repressa dalla polizia e muoiono 3 persone. Il giorno seguente il giovanissimo Alvaro Conrado, 15 anni, muore colpito da un proiettile alla gola, mentre il ministro della salute richiedeva espressamente che non fosse soccorso in un ospedale pubblico. Ortega ordina la chiusura di due canali televisivi indipendenti e quello della Conferencia Episcopale Nicaraguense (CEN), da sempre organo mediatore nei negoziati internazionali. D’improvviso la popolazione insorge, le proteste si fanno più frequenti e partecipate, la polizia alza la mano e i morti si moltiplicano a decine. Ortega ritira la riforma e dispone l’esercito a presidiare tutti i principali centri urbani. Ma ha ormai perso il controllo.

Inizia così una serie di scontri tra esercito e civili, feroci e sanguinolenti. Si assiste a delle carneficine, veri e propri genocidi, specialmente in città come Leon e Masaya. Mamme costrette a osservare i propri figli morti in fosse comuni, senza poterne recuperare i corpiDa aprile si contano oltre 400 morti, quasi 4 mila feriti e circa 1200 persone sequestrate o fatte scomparire. Non é una guerra civile, perché ció presupporrebbe due fazioni, nemiche, similmente attrezzate ed organizzate. Così non è. Da una parte ci sono soprattutto giovani, in bianco e azzurro, non armati, che cercano di difendere le loro città, protetti inbarricadas, mentre la popolazione li aiuta portanto cibo e acqua. Dall’altra c’è il governo, con i suoi mezzi di comunicazione, le élite, le armi. Un governo che ha ormai solo l’appoggio di una ridotta minoranza dell’elettorato (forse un 10%-15%), ma ha potere sull’esercito e ammazza anche i poliziotti che si oppongono.

Oggi, 6 milioni di nicaraguensi sono costretti a vivere nell’insicurezza, nelle minacce, nella totale mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine, addestrate a mantenere constantemente alta la tensione, a controllare le conversazioni sulle reti sociali e scovare reati inesistenti. Soldati che vogliono e trovano i faccia a faccia, pronti a far innescare l’ennesimo esplosivo sociale. La gente ha paura del buio, non esce più la sera, e alle 7 di sera si preoccupa se qualche familiare non è ancora rientrato a casa. Si limita il più possibile il contatto con l’ambiente esterno e si fanno provviste, con quel che si ha, come in tempi di carestia. Molti ristoranti, hotel sono tristemente vuoti o falliti. Non c’é più lavoro, solo gente disposta a lavorare per molto poco. Quelli che possono, emigrano nella vicina Costa Rica o in altri paesi centroamericani, paradossalmente più sicuri; anche se alcuni vengono fermati nei posti di blocco, ricattati, arrestati o rispediti al mittente.

La cronaca del 31 agosto scorso ci riporta all’espulsione dal paese, ordinata dal presidente Ortega, dei membri della delegazione dell'Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, autori di un rapporto considerato "fazioso". Il rapporto denunciava fortemente le violazioni dei diritti umani da parte del governo, nella crisi sviluppatasi dal 18 aprile scorso in avanti. Ne é scaturita una marcia, il 3 settembre a Managua, intitolata “marcia delle bandiere”, durante la quale uomini, simpatizzanti sandinisti, a bordo di furgoni di colore rossonero, hanno sparato sul corteo, ferendo alcune persone.

Daniel Ortega, é un presidente ormai perso nell’abisso del suo egocentrismo, acciecato dalle manie di potere e dalla supremazia economica delle sue imprese. Non riflette più, non è più lucido. Accusa i vescovi “satanisti” di essere parte di un complotto contro di lui, e considera coloro che protestano "golpisti" e "terroristi" al soldo degli Stati Uniti. I nicaraguensi temono l'ambizione di Ortega e della sua famiglia di rimanere al potere ininterrotamente, alla luce della riforma costituzionale promossa dallo stesso Ortega nel 2013 per legalizzare la sua rielezione a tempo indeterminato. Dopo aver vinto le elezioni del 2017, in condizioni di dubbia legalità, (insieme a sua moglie, come vicepresidente), Ortega non ha nessuna intenzione di dimettersi o di andare a elezioni anticipate, nonostante molti membri dello stesso FSNL si siano totalmente dissociati dalle sue politiche. Anche il fratello di Daniel, Humberto, ex capo delle forze armate del paese, ha additato le autorità quali responsabili della violenza, e ha fatto appello affinché vengano eliminate le squadre paramilitari filo-governative. Insomma, un governo che assomiglia sempre più a quella, terribile, dittatura di Anastasio Somoza, che lo stesso Ortega, nel 1979, aveva combattuto, militando nelle file della Rivoluzione Sandinista. Storie viste e riviste in America Latina, ma non per questo meno allarmanti. Storie che, insensibilmente, si ripetono in loop, come malattie croniche.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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