‘Na tazzulella ‘e cafe’…

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Sotto molteplici punti di vista, le capsule del caffè sono un simbolo significativo di una di quelle buone abitudini fatte proprie - e distorte - dai meccanismi della società consumistica. Sono colorate, accattivanti, pratiche e… che cos’hanno allora di strano? Forse niente, se non ci facciamo caso, se lasciamo che sia la popolarità a prevalere sulla sostenibilità, la convenienza sulla responsabilità. Se però qualcosa nella loro capillare diffusione ci disturba, se siamo persone attente a evitare stravolgimenti ambientali non necessari, se in qualche modo abbiamo a cuore l’equilibrio di un ecosistema sano… non demonizzeremo quelle capsule ma troveremo di certo nella loro esistenza più di una ragione per porci delle domande. Prima tra tutte quella legata al loro impatto ambientale.

Le capsule sono infatti piccoli contenitori di plastica e alluminio, che implicano ingenti investimenti per il loro smaltimento, non solo in termini temporali (sappiamo ormai fin troppo bene il tempo pressoché infinito necessario per lo smaltimento della plastica) ma anche in termini economici, con costi decisamente superiori all’utilizzo di una semplice macchina per il caffè in polvere o in grani. Di rado poi le cialde trovano un impiego alternativo una volta utilizzate. Agli amanti della creatività e del riciclo va di certo reso un tributo dovuto per la fantasia e l’impegno nel far rinascere le cialde in braccialetti, collane, orecchini, addobbi per le festività e luci per l’ambiente domestico, ma realisticamente dobbiamo ammettere che il consumo sfrenato di cialde dovrebbe convertirsi in milioni di monili (volume e fatturato sono in costante aumento, aumento che per il 2020 in Gran Bretagna prevede persino il superamento delle bustine di the!) per arginarne lo smisurato impiego. Senza contare che per realizzare prodotti di riciclo sono necessari acqua e detersivi per ripulire le cialde in quantità non trascurabili.

Per far fronte a questo problema, la città di Amburgo ha preso pubblicamente posizione e, come parte di una guida di “potenziamento verde”, ha introdotto un divieto all’acquisto con denari pubblici di “prodotti inquinanti o loro componenti”. Un divieto che include in maniera specifica anche componenti per il servizio di bevande calde nelle quali sia utilizzato un sistema di imballaggio che, per non lasciare dubbi, viene esplicitamente indicato con “Kaffee Kapselmaschine” (1 su 8 dei caffè venduti in Germania). Le motivazioni, espresse con teutonica sintesi da Jan Dube, portavoce del Dipartimento per l’Ambiente e l’Energia di Amburgo, sono chiare: consumo di risorse non necessario, generazione di rifiuti in eccesso, inquinamento da alluminio. I produttori di capsule hanno risposto facendo riferimento ai loro programmi di riciclo, che prevedono per questi piccoli colorati contenitori un sistema di “vuoto a rendere” come spesso utilizzato per il vetro. C’è anche chi propone un sistema di cauzione sulle cialde, cosa già messa in pratica in alcuni casi per le lattine di birra e, appunto, per le bottiglie in vetro.

Nespresso, ad esempio, che nel 1986 ha inaugurato la vendita di capsule con 4 differenti aromi, ha circa 14 mila punti di raccolta in 31 Paesi, capaci di processare circa l’80% delle capsule prodotte. Virtuosi, ma con un neo che rappresenta effettivamente un nodo cruciale e che non si focalizza tanto sulla possibilità di riciclare, ma sull’effettiva necessità di produrre materiali che poi debbano essere dismessi o riciclati. In questo caso il riciclo dovrebbe essere l’ultima spiaggia per quei prodotti che risulta inevitabile immettere sul mercato, non la soluzione immediata. Questo in considerazione soprattutto della difficoltà di riciclo che comportano le caratteristiche del prodotto stesso, spesso costituito da un mix di materiali diversi che ne costituiscono l’imballaggio, processo difficile da attuare negli impianti municipali anche per la componente organica (residui di caffè dentro la cialda) che contengono e che dev’essere separata.

Voci provenienti dal mondo ambientalista americano sottolineano come lo scenario migliore per il consumo del caffè sia “una certa quantità di polvere sciolta in una certa quantità d’acqua e assunta tramite l’utilizzo di una tazza che può essere lavata e rilavata centinaia di volte, per poi utilizzare il caffè rimasto nel compost o nella produzione di funghi”. Un ragionamento di una linearità disarmante, soprattutto se consideriamo che una capsula dal peso di 3 grammi contiene appena 6 grammi di caffè. Un sistema che però, nell’Europa occidentale, costituisce 1 terzo dei 18 miliardi di euro movimentati dal mercato del caffè. Sono considerazioni che hanno spinto migliaia di persone ad aderire a campagne come la “Kill the K-cup” (la capsula più diffusa oltreoceano), ma interessanti sono anche i comportamenti virtuosi attuati da aziende come l’italiana Caffè Vergnano, che per le sue capsule ha messo a punto un imballaggio completamente compostabile, cammino intrapreso anche dalla neozelandese Honest Coffee Company, che ha realizzato imballaggi in fibre vegetali compatibili con le macchine Nespresso. Si tratta come sempre di piccole realtà che, fino a quando i consumatori non si renderanno conto del loro potere di influenzare le decisioni dei grandi marchi, avranno difficoltà a diffondersi, sopraffattie dall’ancora troppo forte domanda del mercato per prodotti discutibili.

“Elementare, mio caro Watson!” direbbe qualcuno. Eppure così scontato questo procedimento non è. Al di là delle romantiche nostalgie atmosferiche legate al gesto del preparare e condividere il caffè che ci hanno portati dal chicco alla polvere alle moke e infine ai così comuni punti vendita in Europa dei “coffee-to-go”, dobbiamo evidentemente confrontarci ancora una volta con noi stessi, con le nostre pigrizie, con le nostre illusioni legate all’immagine e al marketing, con la relazione che abbiamo in primo luogo con il tempo, non più speso a far bollire l’acqua e ad assaporare aromi, ma rapidamente demandato a una veloce operazione di incastro, sancita da un impersonale click più che dai familiari gorgoglii di moka.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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